Illegittima la applicazione retroattiva della spazzacorrotti: il comunicato della Corte Costituzionale
Diamo immediata notizia del comunicato stampa pubblicato sul sito della Corte Costituzionale in merito alle questioni di legittimità costituzionale sollevate sulla applicazione retroattiva della legge 9 gennaio 2019 n. 3 (cosiddetta Spazzacorrotti) in tema di divieto di concessione di benefici e misure alternative alla detenzione.
Questo il testo del comunicato:
La Corte costituzionale ha esaminato oggi in camera di consiglio le censure sollevate da numerosi giudici sulla retroattività della legge 9 gennaio 2019 n. 3 (cosiddetta Spazzacorrotti), che ha esteso ai reati contro la pubblica amministrazione le preclusioni previste dall’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario rispetto alla concessione dei benefici e delle misure alternative alla detenzione. In particolare, è stata denunciata la mancanza di una disciplina transitoria che impedisca l’applicazione delle nuove norme ai condannati per un reato commesso prima dell’entrata in vigore della legge n. 3/2019.
In attesa del deposito della sentenza, previsto nelle prossime settimane, l’Ufficio stampa fa sapere quanto segue.
La Corte costituzionale ha preso atto che, secondo la costante interpretazione giurisprudenziale, le modifiche peggiorative della disciplina sulle misure alternative alla detenzione vengono applicate retroattivamente, e che questo principio è stato sinora seguito dalla giurisprudenza anche con riferimento alla legge n.3 del 2019.
La Corte ha dichiarato che questa interpretazione è costituzionalmente illegittima con riferimento alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione successivo alla sentenza di condanna.
Secondo la Corte, infatti, l’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con il principio di legalità delle pene, sancito dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione.
Roma, 12 febbraio 2020
Attenuante del lucro di speciale tenuità (art. 62 n. 4 c.p.) e cessione di sostanze stupefacenti: l’informazione provvisoria delle Sezioni Unite
Cassazione Penale, Sezioni Unite, ud. 30 gennaio 2020, informazione provvisoria n. 3/2020
Presidente Carcano, Relatore Mogini, P.G. Spinelli (concl. parz. conf.)
Come avevamo anticipato, con ordinanza n. 42731 del 2019, era stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: «se la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità di cui all’art. 62 n. 4 c.p. sia applicabile al reato di cessione di sostanze stupefacenti in presenza di un evento dannoso o pericoloso connotato da un ridotto grado di offensività o disvalore sociale, e se sia compatibile con l’autonoma fattispecie del fatto di lieve entità, prevista dall’ art.73, comma 5, d.P.R. n. 309/90».
All’udienza del 30 gennaio 2020, le Sezioni Unite hanno fornito la seguente soluzione: «affermativa, con riferimento ad entrambi i quesiti».
Falso in atto pubblico e natura fidefacente dell’atto non esplicitamente indicata nel capo d’imputazione ma riconosciuta dal giudice in sentenza: la sentenza delle Sezioni Unite
Cassazione Penale, Sezioni Unite, 4 giugno 2019 (ud. 18 aprile 2019), n. 24906
Presidente Carcano, Relatore Zaza
Con ordinanza n. 3274/2019, era stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: «se il giudice possa ritenere in sentenza la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico ex art. 476, comma secondo, cod. pen. qualora la natura fide faciente dell’atto considerato falso non sia stata esplicitamente indicata nel capo d’imputazione».
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 24906/2019, hanno fornito risposta “negativa” affermando il seguente principio di diritto: «non può essere ritenuta in sentenza dal giudice la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico, ai sensi dell’art. 476, comma 2, cod. pen., qualora la natura fidefacente dell’atto considerato falso non sia stata esplicitamente contestata ed esposta nel capo di imputazione con la precisazione di tale natura o con formule alla stessa equivalenti, ovvero con l’indicazione della norma di legge di cui sopra».
L’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo. Brevi note a caldo.
in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 5 – ISSN 2499-846X
Il 20 aprile 2019 è entrata in vigore la legge 12 aprile 2019, n. 33, con la quale si esclude l’accesso al rito abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo (per il testo della novella, clicca qui).
Il legislatore muove dall’intento di assicurare una risposta sanzionatoria severa a fatti di particolare allarme sociale (qualificando come tali esclusivamente quelli previsti con la pena dell’ergastolo), sottraendoli all’applicazione del meccanismo premiale del rito abbreviato, con (evidenti) inevitabili ricadute sul funzionamento del sistema giudiziario.
1. Il giudizio abbreviato, cenni
Il rito abbreviato rientra tra il novero delle procedure semplificate e alternative al dibattimento, il cui principale obiettivo è la deflazione del carico dei procedimenti.
Tale giudizio si caratterizza per essere celebrato allo stato degli atti, ovvero sulla base dei risultati delle indagini preliminari confluiti nel fascicolo del Pubblico Ministero, al fine di favorire la definizione del procedimento in forma accelerata.
Naturalmente, la drastica riduzione dei tempi processuali, nonché la rinuncia dell’imputato al pieno contraddittorio dibattimentale, trovano un bilanciamento, in caso di condanna, nella previsione di un meccanismo premiale, ovverosia una diminuzione di pena della metà se si procede per una contravvenzione e di un terzo se si procede per un delitto.
Peraltro, si rammenta che la richiesta di giudizio abbreviato cd. non condizionato non è soggetta ad alcuna valutazione discrezionale, configurandosi in capo all’imputato un vero e proprio diritto potestativo all’accesso al rito, subordinato esclusivamente al rispetto delle forme e dei termini previsti dalla legge.
Non solo, in base alla normativa (ormai) previgente, non sussistevano preclusioni all’accesso al rito nemmeno con riferimento alla natura del reato per cui si procedeva, così che l’esercizio del diritto alla definizione del giudizio in forma semplificata era pienamente garantito senza esclusioni di alcun tipo.
Ebbene, la presente riforma apporta una sostanziale modifica a tale disciplina proprio con riferimento al meccanismo di accesso al giudizio abbreviato, escludendone l’operatività per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo. Di conseguenza, sotto un profilo squisitamente tecnico, laddove venga avanzata una richiesta di rito abbreviato per un reato ostativo, il giudice, avuto riguardo alla sola qualificazione giuridica del fatto, deve pronunciare ordinanza di inammissibilità.
2. I difficili rapporti tra giudizio abbreviato e la pena dell’ergastolo
Ad un attento giurista, tuttavia, non sfugge che tale dissonante rapporto tra rito abbreviato ed ergastolo non è nuovo.
La novella, difatti, pare riportare la disciplina normativa nell’anno 1991, quando, sulla scia della sentenza n. 176 della Corte Costituzionale, il rito abbreviato veniva escluso per i reati in astratto puniti con l’ergastolo.
Più precisamente, nella legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, il Parlamento indicava al Governo le direttive per la redazione del nuovo codice di procedura penale in cui, per quanto qui di rilievo, si limitava a individuare la riduzione di un terzo della pena applicata in caso di condanna, senza considerare la questione relativa ai criteri di calcolo applicabili alla pena perpetua dell’ergastolo.
Così, nel silenzio della legge delega, per il fine pena mai veniva inserita, all’art. 442 co. 2 c.p.p., la riduzione fissa a trent’anni.
Ebbene, proprio tale soluzione normativa veniva tacciata di incostituzionalità, per eccesso di delega, dalla predetta sentenza del Giudice delle leggi.
La decisione, peraltro, suscitava un intenso dibattito. Alla tesi dottrinale, favorevole all’applicabilità del giudizio abbreviato anche ai delitti puniti con l’ergastolo ma senza riduzioni di pena in caso di condanna, si contrapponeva quella giurisprudenziale, e maggioritaria, secondo la quale, alla luce della declaratoria di incostituzionalità, vigeva una generale inammissibilità del rito per i reati puniti con pena perpetua.
Solo nel 1999, con la l. 16 dicembre, n. 479, cd. legge Carotti, veniva reintrodotto il giudizio abbreviato anche per i delitti in questione, prevedendo espressamente la riduzione della pena a trent’anni.
Sebbene, dunque, tale inapplicabilità fosse collegata a motivi di eccesso di delega dell’art. 442 co. 2 c.p.p., e non a scelte di politica criminale, nondimeno la disciplina odierna torna, come allora, ad escludere tale rito speciale per i delitti puniti con l’ergastolo.
3. La riforma del giudizio abbreviato: inapplicabilità per i delitti puniti con l’ergastolo
In particolare, la l. 33/2019 apporta sostanziali modifiche agli artt. 438, 441-bis, 442 e 429 del codice di procedura penale.
Il fulcro della novella risiede nell’art. 1, lett. a), che introduce il comma 1-bis all’art. 438 c.p.p., disponendo espressamente l’inapplicabilità del giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo e, di fatto, escludendo l’applicabilità del rito a fatti di particolare allarme sociale, quali, tra gli altri, l’omicidio aggravato (art. 575 c.p., aggravato ai sensi degli artt. 576 e 577 c.p.), il sequestro di persona a scopo di estorsione, qualora il colpevole cagioni la morte del sequestrato (art. 630 co. 3 c.p.), e il reato di strage (art. 422 c.p.).
Orbene, se è pur vero che tale riforma costituisce insindacabile espressione di scelte di politica legislativa, cionondimeno alcune osservazioni critiche si rendono necessarie e oltremodo opportune.
Anzitutto, è bene rammentare che la discrezionalità del legislatore trova un limite nella ragionevolezza delle scelte compiute, ed è proprio per il tramite di tale strumento che si ritiene possibile verificarne non solo le ricadute pratiche, bensì la tenuta costituzionale.
La giustificazione che permea la nuova disciplina si fonda su due essenziali esigenze: da un lato, che il processo venga celebrato davanti al giudice naturale, dall’altro, invece, che sia prevista una pena congrua e proporzionata alla gravità del fatto.
Quanto al primo punto, occorre rammentare che la previsione della celebrazione del rito abbreviato davanti a un giudice monocratico si ricollega alla necessità di rendere più efficiente il sistema giudiziario e di ridurre il carico di lavoro dei giudici del dibattimento.
Ad ogni modo, anche a ritenere più opportuna la celebrazione del giudizio avanti la Corte d’Assise, sarebbe bastato prevedere la competenza di quest’ultima altresì per il rito abbreviato con riferimento ai reati che le sono affidati dalla legge.
In ogni caso, l’eccezione alla garanzia della formazione della prova in contraddittorio è il risultato di una scelta dell’imputato, che autonomamente sceglie di anticipare la definizione del giudizio all’udienza preliminare, in applicazione di una norma che rispetta l’art. 111 Cost..
Quanto alla potenziale incongruenza della riduzione della pena per i delitti di maggior allarme sociale, va evidenziato come la riduzione conseguente alla scelta del rito abbreviato non comporti in concreto un risparmio di pena così significativo, atteso che l’ergastolo è convertito nella reclusione a trenta anni e l’ergastolo con isolamento diurno è convertito in ergastolo semplice.
Pertanto, anche sul piano della tutela della collettività, la riduzione di pena non è significativa e le giustificazioni che reggono la nuova scelta normativa appaiono assai deboli. Né può trascurarsi che il rito abbreviato è spesso scelto dai collaboratori di giustizia, così che il divieto di poter ricorrere a questa forma di premialità sconta il rischio di ingenerare una profonda incertezza rispetto alle scelte collaborative.
La novella, del resto, si pone in aperto contrasto rispetto al (finora) costante indirizzo legislativo di favore alla celere definizione dei procedimenti mediante il ricorso a riti alternativi.
Questi ultimi, consentendo, com’è chiaro, importanti risparmi di tempo e di risorse, contribuiscono sensibilmente all’efficienza e al funzionamento del sistema giudiziario. La scelta del giudizio abbreviato, difatti, autorizzando la definizione del procedimento sulla base del materiale raccolto dal Pubblico Ministero, contribuisce non solo all’incentivazione di un’attività investigativa efficiente, ma soprattutto alla riduzione dei tempi processuali.
Peraltro, alla luce dei dati statistici forniti dal Ministero della Giustizia, è possibile constatare che il ricorso al rito abbreviato avviene in modo più frequente proprio con riferimento ai delitti puniti con l’ergastolo, sebbene il risparmio di pena sia ben poco consistente.
In particolare, nelle vicende di maggiore gravità è sentita l’esigenza di accertare e giudicare i fatti in tempi brevi, evitando dibattimenti complessi e scarcerazioni per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Di conseguenza, appare prima facie irragionevole negare all’imputato (e al sistema giudiziario) la possibilità di una definizione celere e certa del processo.
Sulla scorta di tali elementi, peraltro, è possibile ipotizzare che alla presente riforma seguiranno significative ricadute sui carichi di lavoro degli uffici giudiziari, con rischio di collasso specialmente della Corte d’Assise.
A tale considerazione, deve aggiungersi che l’aggravamento del carico del ruolo della predetta Corte non determina automaticamente uno sgravio di attività per il giudice dell’udienza preliminare.
Un aspetto problematico (e non disciplinato dal legislatore) è, difatti, quello relativo ai procedimenti con imputazioni cumulative, nei quali vengono contestati sia reati ostativi sia reati per i quali l’accesso al rito abbreviato è consentito.
La questione, dunque, attiene alla possibilità di poter accedere a un giudizio abbreviato cd. parziale, cioè limitato ai soli reati per cui è consentito.
In assenza di una specifica disciplina, appare utile confrontare il testo dell’originaria formulazione del disegno di legge (“sono esclusi dall’applicazione del comma 1 i procedimenti per i delitti per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo”) con quello definitivo della l. 33/2019 (“non è ammesso il rito abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo”), in cui emerge la sostituzione del termine “procedimenti” con “delitti”.
In via interpretativa, pertanto, appare possibile ricavarne l’intento di circoscrivere l’effetto preclusivo al solo reato punito con l’ergastolo e non all’intero procedimento, con conseguente e inevitabile stralcio delle imputazioni e aggravio del carico di lavoro per più uffici giudiziari.
4. Riflessioni e dubbi di costituzionalità
A questo punto, sembra evidente la necessità di vagliare la ragionevolezza del diverso trattamento procedurale (ora) previsto per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo.
La limitazione del catalogo di reati per i quali viene ammesso il ricorso al rito abbreviato crea una oggettiva disparità di trattamento, tra i reati puniti con la pena dell’ergastolo e tutti gli altri, e inevitabilmente coinvolge il principio di uguaglianza, traducendosi nel rischio di violazione dell’art. 3 Cost..
In sede di primissimo studio, difatti, sembra ingiustificato negare ad alcuni imputati, sulla base della sola natura della pena prevista per i reati a loro contestati, la possibilità di anticipare la definizione del giudizio e di beneficiare di uno sconto di pena.
Peraltro, la ratio del legislatore di assicurare risposte sanzionatorie più severe a fatti di maggior allarme sociale mal si concilia con la presunzione che questi coincidano esclusivamente con i delitti puniti con l’ergastolo.
Difatti, sebbene tale pena sia indice del disvalore massimo che la legge riconosce a un fatto di reato, non solo le fattispecie penali punite con l’ergastolo mettono gravemente in pericolo l’ordine pubblico, ma anche altri reati, puniti con pene temporanee, quale, a titolo esemplificativo, l’associazione mafiosa, sono (almeno) di uguale gravità.
Così, ammesso che tale scelta legislativa concretamente raggiunga l’obiettivo di un ispessimento repressivo, si corre il rischio che in futuro anche per altre ipotesi di reato potrà essere vietato il ricorso al giudizio abbreviato.
Peraltro, vietare l’accesso a un rito premiale solo per alcune categorie di reati, allungando i tempi del processo per l’imputato non colpevole, potenzialmente viola anche il principio della ragionevole durata del processo (art. 111 co. 2 Cost.), nonché della presunzione di non colpevolezza (art. 27 co. 2 Cost.).
5. Ulteriori modifiche introdotte
Con riferimento alle ulteriori modifiche introdotte dalla legge 33/2019, appare poco chiara la ratio dell’art. 1, lett. b), che, prevedendo la possibilità di reiterare la richiesta di rito abbreviato condizionato rigettata nella fase introduttiva dell’udienza preliminare, mal si concilia con il carattere totalmente ostativo del reato in contestazione.
A fronte di tale quadro normativo, dunque, si potrebbe valorizzare la concreta portata di tale norma riconoscendo all’imputato la possibilità di reiterare la richiesta di rito abbreviato, condizionandola a una diversa qualificazione del fatto.
Incertezze interpretative ricorrono anche con riferimento all’art. 1, lett. c), il quale prevede che, qualora la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile ai sensi del (nuovo) comma 1-bis dell’art. 438 c.p.p., se all’esito del dibattimento il giudice ritiene che per il fatto sia ammissibile il rito speciale, il recupero della diminuente opera automaticamente, a prescindere dalla reiterazione della richiesta del rito in limine litis.
L’art. 2 della riforma, inoltre, introduce all’art. 441-bis c.p.p. il comma 1-bis, secondo cui, qualora all’esito dell’attività di integrazione probatoria, conseguente alla richiesta di rito abbreviato condizionato, il Pubblico Ministero modifichi l’originaria contestazione, procedendo per un reato ostativo al rito, il giudice revoca l’ordinanza di ammissione al rito abbreviato e fissa l’udienza preliminare o la sua eventuale prosecuzione.
In aggiunta, il legislatore introduce il comma 2-bis all’art. 429 c.p.p., prevedendo la possibilità che, a seguito di una diversa qualificazione del fatto nel decreto che dispone il giudizio tale da rendere ammissibile il rito abbreviato, l’imputato sia rimesso nei termini per richiedere l’accesso allo stesso.
Infine, l’art. 5 prevede che le nuove disposizioni si applicano a fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore della legge, in piena conformità con il principio di irretroattività della norma sanzionatoria più sfavorevole, nel cui ambito di operatività ricade anche la disciplina del giudizio abbreviato. Al riguardo, basti rammentare che l’art. 442 co. 2 c.p.p., incidendo sulla severità della pena da infliggere in caso di condanna, si atteggia a norma di diritto sostanziale e, pertanto, soggiace al principio di irretroattività (art. 7 CEDU, art. 25 co. 2 Cost.).
6. Conclusioni
Ebbene, alla luce delle suesposte considerazioni, appare evidente come la presente riforma si ponga in chiara controtendenza rispetto all’incentivazione degli strumenti deflattivi.
Sicché, la novella reca con sé inevitabili ricadute sul complessivo assetto del sistema giudiziario, in particolare sul carico del ruolo della Corte d’Assise, con sacrificio dei principi di efficienza e ragionevole durata del procedimento, lasciando al giurista non pochi dubbi sulla sua tenuta costituzionale.
Come citate il contributo in una bibliografia:
F. Barbero, L’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo. Brevi note a caldo, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 5
Il delitto di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente previsto dall’art. 617-septies c.p.
in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 4 – ISSN 2499-846X
Il decreto legislativo 29 dicembre 2017, n. 216 — recante “Disposizioni in materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere a), b), c), d) ed e), della legge 23 giugno 2017, n. 103”, entrato in vigore il 26 gennaio 2018 — ha introdotto nel codice penale l’art. 617-septies, rubricato: “Diffusione di riprese e registrazioni fraudolente”.
Art. 617-septies c.p. – Diffusione di riprese e registrazioni fraudolente
Chiunque, al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati o registrazioni, pur esse fraudolente, di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, svolte in sua presenza o con la sua partecipazione, è punito con la reclusione fino a quattro anni.
La punibilità è esclusa se la diffusione delle riprese o delle registrazioni deriva in via diretta ed immediata dalla loro utilizzazione in un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa.
Tale decreto è stato emanato in attuazione della delega conferita al Governo per la riforma della normativa delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, volta a garantire la sanzionabilità delle violazioni dei doveri di riservatezza che possono presidiare lo svolgimento di incontri e conversazioni private.
Sebbene il focus e l’essenza della riforma si incentrino, modificandole, sulle disposizioni del codice di rito in tema di disciplina della intercettazione di comunicazioni o conversazioni, appare utile esaminare il testo del nuovo art. 617-septies c.p., al fine di scrutarne la struttura, la ratio ed analizzarne i profili problematici che esso pone.
Nuove contestazioni “fisiologiche” e facoltà di chiedere il patteggiamento: dichiarata l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 517 c.p.p.
Corte Costituzionale, 11 aprile 2019 (ud. 20 febbraio 2019), sentenza n. 82
Presidente Lattanzi, Relatore Modugno
Con sentenza n. 82 del 2019, la Corte Costituzionale, giudicando fondata la questione sollevata dal Tribunale di Alessandria con ordinanza del 25 ottobre 2017, ha dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p. nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena, a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al reato concorrente emerso nel corso del dibattimento e che forma oggetto di nuova contestazione.
Dichiarazioni di periti e consulenti e rinnovazione dibattimentale nel caso di riforma della sentenza assolutoria: la sentenza delle Sezioni Unite
Cassazione Penale, Sezioni Unite, 2 aprile 2019 (ud. 28 gennaio 2019), n. 14426
Presidente Carcano, Relatore Rago
Come avevamo anticipato, con ordinanza n. 41737/2018 era stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: «se la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico costituisca o meno prova dichiarativa assimilabile a quella del testimone, rispetto alla quale, se decisiva, il giudice di appello avrebbe l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa».
All’udienza del 28 gennaio 2019, la Corte aveva fornito la seguente soluzione: «Affermativa. Il giudice di appello è tenuto a rinnovare l’istruzione dibattimentale procedendo all’esame del perito (o del consulente tecnico) se questi sia stato già esaminato nel dibattimento di primo grado e la sua dichiarazione sia ritenuta decisiva».
Con la sentenza n. 14426/2019, le Sezioni Unite hanno affermato i seguenti principi di diritto:
i) «la dichiarazione resa dal perito nel corso del dibattimento costituisce una prova dichiarativa. Di conseguenza, ove risulti decisiva, il giudice di appello ha l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa»;
ii) «ove, nel giudizio di primo grado, della relazione peritale sia stata data la sola lettura senza esame del perito, il giudice di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, condanni l’imputato assolto nel giudizio di primo grado, non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame del perito»;
iii) «le dichiarazioni rese dal consulente tecnico oralmente vanno ritenute prove dichiarative, sicchè, ove siano poste a fondamento dal giudice di primo grado della sentenza di assoluzione, il giudice di appello – nel caso di riforma della suddetta sentenza sulla base di un diverso apprezzamento delle medesime – ha l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale tramite l’esame del consulente».
Revenge porn: il testo dell’emendamento approvato dalla Camera
Con 461 voti a favore e nessun contrario, la Camera dei Deputati, nell’ambito dell’esame del disegno di legge recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere (C. 1455-A e abb.)”, ha approvato l’emendamento sul cd. “revenge porn”.
Il testo approvato prevede l’inserimento, dopo l’art. 612-bis c.p., della seguente disposizione:
Art. 612-ter c.p. (Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti)
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro.
La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o il video li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento.
La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. Si procede tuttavia d’ufficio nei casi di cui al quarto comma, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.
Riforma della legittima difesa, il Senato approva il testo: è legge.
Con 201 voti favorevoli, 38 contrari e 6 astenuti, il Senato della Repubblica ha dato il via libera definitivo al disegno di legge – già approvato dalla Camera dei Deputati il 6 marzo u.s. – recante modifiche al codice penale e altre disposizioni in materia di legittima difesa.
Come si legge nel dossier predisposto dal Servizio Studi di Camera e Senato, la riforma:
- modifica la disciplina della legittima difesa domiciliare, ossia la disposizione (comma 2 dell’articolo 52 c.p.) che autorizza il ricorso a «un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo» per la difesa legittima della «propria o altrui incolumità» o dei «beni propri o altrui». In relazione a tale fattispecie, la modifica consiste nella specificazione che si considera «sempre» sussistente il rapporto di proporzionalità tra la difesa e l’offesa;
- introduce un’ulteriore presunzione all’interno dell’articolo 52 c.p., in base alla quale sarebbe sempre da considerarsi in stato di legittima difesa colui che, legittimamente presente all’interno del proprio o dell’altrui domicilio (da intendersi in senso ampio, quale luogo ove venga esercitata attività commerciale, imprenditoriale o professionale), agisca al fine di respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia;
- interviene sulla disciplina dell’eccesso colposo (art. 55 c.p.), escludendo, nelle varie ipotesi di legittima difesa domiciliare, la punibilità di chi, trovandosi in condizione di minorata difesa o in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo, commette il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità;
- prevede che nei casi di condanna per furto in appartamento e furto con strappo (art. 624-bis c.p.) la sospensione condizionale della pena sia subordinata al pagamento integrale dell’importo dovuto per il risarcimento del danno alla persona offesa;
- inasprisce il quadro sanzionatorio per una serie di reati contro il patrimonio: violazione di domicilio (art. 614 c.p.) e l’ipotesi aggravata che ricorre quando la violazione di domicilio è commessa con violenza sulle cose, o alle persone, ovvero se il colpevole è palesemente armato; furto in abitazione, furto con strappo e condotte aggravate; rapina e ipotesi aggravate e pluriaggravate;
- interviene sulla disciplina civilistica della legittima difesa e dell’eccesso colposo, specificando che, nei casi di legittima difesa domiciliare, è esclusa in ogni caso la responsabilità di chi ha compiuto il fatto: in tal modo l’autore del fatto, se assolto in sede penale, non è obbligato a risarcire il danno derivante dal medesimo fatto. Si prevede, inoltre, che nei casi di eccesso colposo, al danneggiato sia riconosciuto il diritto ad una indennità, calcolata dal giudice con equo apprezzamento tenendo conto «della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta posta in essere dal danneggiato»;
- introduce il patrocinio a spese dello Stato in favore di colui che sia stato assolto, prosciolto o il cui procedimento penale sia stato archiviato per fatti commessi in condizioni di legittima difesa o di eccesso colposo di legittima difesa;
- prevede che nella formazione dei ruoli di udienza debba essere assicurata priorità anche ai processi relativi ai delitti di omicidio colposo e di lesioni personali colpose verificatisi in presenza delle circostanze di cui alla legittima difesa domiciliare.
L’unica modifica apportata dalla Camera il 6 marzo 2019 (rispetto alla versione precedentemente approvata dal Senato il 25 ottobre 2018) riguardava la copertura finanziaria del provvedimento.
ESTENSIONE DEL REGIME OSTATIVO EX ART. 4 BIS ORD. PENIT. AI DELITTI CONTRO LA P.A.: LA CASSAZIONE APRE UNA BRECCIA NELL’ORIENTAMENTO CONSOLIDATO, FAVOREVOLE ALL’APPLICAZIONE RETROATTIVA
di Gian Luigi Gatta – penale contemporaneo 26.03.2019
Cass. Sez. VI, 14 marzo 2019, n. 12541, Pres. Fidelbo, Rel. Bassi, ric. Ferraresi
1. Come era facile prevedere, l’inserimento della corruzione e di alcuni altri delitti contro la pubblica amministrazione tra i reati “ostativi” alla concessione dei benefici penitenziari, ex art. 4 bis ord. penit. – accanto, tra gli altri, ai reati di criminalità organizzata – ha finito per rappresentare la più controversa tra le novità introdotte dalla c.d. legge spazza-corrotti (l. 9 gennaio 2019, n. 3). L’impatto di questa riforma sul sistema è infatti tanto immediato quanto dirompente: per effetto del richiamo dell’art. 4 bis ord. penit. nell’art. 656, co. 9 c.p.p., infatti, non è più possibile per il pubblico ministero sospendere l’esecuzione della pena detentiva non superiore a quattro anni consentendo così al condannato di chiedere, dallo stato di libertà, una misura alternativa alla detenzione. Il che comporta l’ingresso in carcere e la prospettiva, sempre che la pena da scontare (anche residua) non sia superiore a quattro anni, di chiedere una misura alternativa rendendosi disponibili a collaborare con la giustizia, ove possibile, ai sensi dell’art. 323 bis, co. 2 c.p. (cfr. l’art. 4 bis, co. 1 ord. penit.).
E’ una significativa novità che riguarda pacificamente i fatti commessi dopo il 31 gennaio 2019, data di entrata in vigore della riforma. Come è stato segnalato problematicamente da contributi pubblicati su questa Rivista – di Vittorio Manes, di Luca Masera e di Domenico Pulitanò – il nuovo regime ostativo dei delitti contro la p.a. riguarda tuttavia oggi anche i fatti antecedentemente commessi: ciò in quanto un consolidato orientamento giurisprudenziale, avallato anche dalle Sezioni Unite della Cassazione, nel 2006 (sent. n. 24561), esclude che il principio di irretroattività riguardi le modifiche peggiorative delle norme in materia di esecuzione penale. Quelle norme avrebbero natura processuale, non sostanziale, e rispetto ad esse opererebbe il principio tempus regit actum. Secondo il diritto vivente, l’inclusione di un reato tra quelli ostativi ex art. 4 bis ord. penit. (la violenza sessuale, nel caso oggetto della citata sentenza delle Sezioni Unite) si riverbera sulle pene in esecuzione, anche se relative a fatti antecedentemente commessi.
2. In occasione di precedenti interventi, volti a inserire nuovi reati tra quelli “ostativi” ex art. 4 bis ord. penit., il legislatore ha talora espressamente escluso, con una disposizione transitoria, l’applicabilità del regime peggiorativo in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge di riforma. Fu così ad esempio nel 2002 (art. 4 l. 23 dicembre 2002, n. 279), per i reati di cui agli artt. 600, 601 e 602 c.p. Una analoga disposizione transitoria non è però presente nella legge spazza-corrotti, il cui regime intertemporale, riguardo al profilo qui in esame, sembra allora inesorabilmente destinato ad essere deciso dal diritto vivente nel senso dell’applicazione retroattiva, consentita dall’operare del principio tempus regit actum.
Ciò è vero a meno che la giurisprudenza non operi un radicale mutamento del proprio orientamento, suggerito anche e proprio dagli autorevoli contributi pubblicati sulle pagine di questa Rivista. Non mi soffermerò molto sulle persuasive ragioni che, a mio avviso, suggeriscono di estendere la ratio garantista del principio di irretroattività della legge penale alle modifiche relative alle misure alternative alla detenzione. Rinvio in proposito a quei contributi, sottolineando come anche a mio avviso modifiche normative comportano l’ingresso in carcere e limitano l’accesso a misure alternative riguardano nient’altro che la pena – la qualità/tipologia della pena conseguente alla condanna – e, pertanto, devono ricadere nell’ambito del principio di irretroattività. Modifiche come quelle apportate all’art. 4 bis ord. penit. dalla legge spazza-corrotti non attengono, genericamente, ad aspetti dell’esecuzione penale (ad es., al numero dei colloqui con i parenti o alla disciplina dei permessi premio): decidono i margini di compressione della libertà personale; lo star ‘fuori’ o ‘dentro’ il carcere. Affermare la natura processuale di quelle norme – appellarsi a un formalismo, mettendo tra parentesi la sostanza – calpesta la ratiodi garanzia del principio di irretroattività, cioè la libertà di compiere libere scelte d’azione (Corte cost. n. 364/1988) potendo conoscere e calcolare, prima di agire, le conseguenze della propria condotta.
3. La vicenda oggetto della sentenza della Cassazione qui pubblicata in allegato è in tal senso davvero emblematica. Prima dell’entrata in vigore della spazza-corrotti, il ricorrente, imputato per delitti di corruzione, patteggia la pena di 2 anni, nove mesi e dieci giorni di reclusione; una pena che, essendo superiore al limite di due anni non può essere condizionalmente sospesa, ex art. 163 c.p., ma che nondimeno, ai sensi dell’art. 656, co. 5 c.p.p., consente di evitare l’ingresso in carcere attraverso la sospensione dell’ordine di esecuzione e la possibilità di chiedere, dallo stato di libertà, una misura alternativa alla detenzione. Sopravviene tuttavia la legge spazza-corrotti, che per quanto si è detto estende il catalogo dei reati ostativi alla corruzione e preclude la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva. Morale: chi ha patteggiato la pena, confidando di non entrare in carcere – facendo cioè affidamento sulla possibilità di chiedere e ottenere da libero una misura alternativa alla detenzione – si trova inaspettatamente con la sacca sulle spalle, pronto a varcare la soglia del carcere.
Sembra davvero arduo non riconoscere che un simile esito sia contrario al principio di irretroattività della legge penale sfavorevole, di cui agli artt. 25 co. 2 Cost. e 7 Cedu. La sentenza qui segnalata ha il coraggio e il merito di farlo, aprendo una breccia nell’orientamento consolidato, di segno opposto. L’occasione è data da una eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis ord. penit., come riformato dalla spazza-corrotti, sollevata dalla difesa attraverso dei motivi nuovi ex art. 611 c.p.p. sul presupposto, errato a fronte dell’art. 665 c.p.p., che la Corte di Cassazione sia giudice dell’esecuzione rispetto al provvedimento impugnato (per illegalità della pena, sotto il diverso profilo dell’applicazione della riparazione pecuniaria ex art. 322 quater c.p., che la S.C. ha ritenuto preclusa in sede di patteggiamento, annullando di conseguenza la sentenza impugnata, limitatamente a questa previsione). La Cassazione tuttavia non si è limitata ad affermare l’irrilevanza della questione sollevata, avendola ritenuta non manifestamente infondata e riproponibile davanti al giudice dell’esecuzione.
4. Dopo avere richiamato la giurisprudenza della Corte EDU sulla ‘materia penale’ – l’approccio sostanzialistico e non formalistico – la Cassazione fa riferimento alla giurisprudenza di Strasburgo (Del Rio Prada c. Spagna, 2013): “Significativa… è la pronuncia resa nel caso Del Rio Prada contro Spagna (del 21 ottobre 2013), là dove la Grande Camera della Corte EDU, nel ravvisare una violazione dell’art. 7 della Convenzione, ha riconosciuto rilevanza anche al mutamento giurisprudenziale in tema di un istituto riportabile alla liberazione anticipata prevista dal nostro ordinamento in quanto suscettibile di comportare effetti peggiorativi, giungendo dunque ad affermare che, ai fini del rispetto del ‘principio dell’affidamento’ del consociato circa la ‘prevedibilità della sanzione penale’, occorre avere riguardo non solo alla pena irrogata, ma anche alla sua esecuzione (sebbene – in quel caso – l’istituto avesse diretto riverbero sulla durata della pena da scontare)”. Alla luce di tale approdo della giurisprudenza di Strasburgo – prosegue la S.C. – “non parrebbe manifestamente infondata la prospettazione difensiva secondo la quale l’avere il legislatore cambiato in itinere le ‘carte in tavola’ senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformità con l’art. 7 CEDU e, quindi, con l’art. 117 Cost., là dove si traduce, per il [ricorrente], nel passaggio – ‘a sorpresa’ e dunque non prevedibile – da una sanzione patteggiata ‘senza assaggio di pena’ ad una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta il già rilevato operare del combinato disposto degli artt. 656, comma 9 lett. a), cod. proc. pen. e 4-bis ord. penit.”.
Senonché, questa la conclusione, “la questione di incostituzionalità prospettata afferisce non alla sentenza di patteggiamento oggetto del presente ricorso, ma all’esecuzione della pena applicata con la stessa sentenza, dunque ad uno snodo processuale diverso nonché logicamente e temporalmente successivo, di talché ai fini della decisione di questa Corte non rileva, potendo se del caso essere riproposta in sede di incidente di esecuzione”.
5. Dopo un primo segnale da parte della giurisprudenza di merito (G.i.p. di Como, in questa Rivista, con nota di L. Masera), la pronuncia della Cassazione, qui segnalata, sembra aprire, suggerendola, la via di un revirementgiurisprudenziale, che potrà (forse dovrà) passare attraverso la rimessione della questione alla Corte costituzionale, se (come ad oggi sembra) la via dell’interpetazione conforme a Costituzione dovesse risultare preclusa dal diritto vivente di segno opposto.
Sul perché i tempi per un simile mutamento giurisprudenziale sembrino maturi solo oggi, e non lo siano stati in passato, in occasione di precedenti allargamenti del catalogo del 4 bis, è lecito interrogarsi, per onestà intellettuale. A pensar male viene da porre l’accento sul tipo criminologico dei destinatari dell’ultima estensione del catalogo dei reati ostativi: i colletti bianchi, che hanno più facile accesso a difese di elevata qualità e che sono destinatari di una stigmatizzazione sociale di gran lunga inferiore rispetto a mafiosi, terroristi e stupratori. A pensar bene, è la rinnovata sensibilità della giurisprudenza per l’estensione e la pervasività dei principi costituzionali e convenzionali, in materia penale, a impedire il protrarsi di un orientamento tanto consolidato quanto non più al passo con i tempi.
Corte Costituzionale: sproporzionata la pena minima di 8 anni per spaccio
Archiviazione per particolare tenuità del fatto e iscrizione nel casellario giudiziale: la parola alle Sezioni Unite.
Cassazione Penale, Sez. I, Ordinanza, 6 marzo 2019 (ud. 27 febbraio 2019), n. 9836
Presidente Mazzei, Relatore Aprile
Segnaliamo ai lettori l’ordinanza n. 9836/2019 con la quale è stata rimessa alle Sezioni Unite una questione di diritto in tema di archiviazione per particolare tenuità del fatto.
In particolare, la prima sezione penale della Corte di Cassazione, preso atto del contrasto giurisprudenziale sul punto, ha rimesso alle Sezioni Unite la sequente questione: «se il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto a norma dell’art. 131-bis cod. pen. sia soggetto all’iscrizione nel casellario giudiziale ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. f), d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313».
La Corte di Appello di Milano solleva questione di legittimità costituzionale in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio (art. 570-bis c.p.)
Corte di Appello di Milano, Sez. I, Ordinanza, 9 ottobre 2018
Presidente Maiga, Relatore Vitale
Si segnala ai lettori l’ordinanza con cui la Corte di Appello di Milano ha sollevato una questione di legittimità costituzionale in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio ex art. 570-bis c.p. introdotto dall’art. 2, comma 1, lett. c), D.Lgs. 1° marzo 2018, n. 21 (Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103) a decorrere dal 6 aprile 2018.
Art. 570 c.p. – violazione degli obblighi di assistenza familiare.
Chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 103 a euro 1.032.
Le dette pene si applicano congiuntamente a chi:
1. malversa o dilapida i beni del figlio minore o del pupillo o del coniuge;
2. fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa salvo nei casi previsti dal numero 1 e, quando il reato è commesso nei confronti dei minori, dal numero 2 del precedente comma.
Le disposizioni di questo articolo non si applicano se il fatto è preveduto come più grave reato da un’altra disposizione di legge.Art. 570-bis c.p. – violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio.
Le pene previste dall’articolo 570 si applicano al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli.
In particolare, i giudici milanesi hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 570-bis c.p., in relazione agli articoli 3 e 30 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che la disciplina in esso prevista si applichi anche nei confronti di colui che non adempia alle prescrizioni di natura economica stabilite in favore dei figli maggiorenni e senza colpa non economicamente autosufficienti nati fuori dal matrimonio.
Omicidio stradale e lesioni personali stradali gravi: automatismo della revoca della patente legittimo solo nel caso di stato di ebbrezza o alterazione psicofisica per assunzione di droghe
Era prevista per il 19 febbraio l’udienza davanti alla Corte Costituzionale sulle questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma (clicca qui per accedere all’ordinanza) e dal Tribunale di Torino (clicca qui per accedere all’ordinanza), dell’art. 590-quater c.p. (nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza e di equivalenza dell’attenuante speciale prevista dall’articolo 589-bis, settimo comma, del codice penale) e dell’art. 222, commi 2 e 3-ter, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (nella parte in cui prevedono, rispettivamente, la revoca della patente di guida e l’impossibilità di conseguire una nuova patente di guida prima che siano decorsi cinque anni dalla revoca).
Analoga questione era stata sollevata anche dal Tribunale di Forlì (clicca qui per accedere all’ordinanza), che aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 222 decreto legislativo n. 285/92 nella parte in cui prevede l’applicazione della medesima sanzione accessoria della revoca quinquennale della patente di guida a fronte di condanne per diversi reati.
«La legge n. 41 del 2016 che ha introdotto il delitto di omicidio stradale e quello di lesioni personali stradali gravi o gravissime inasprendone le sanzioni – si legge nel comunicato stampa – ha superato il vaglio di costituzionalità con riferimento al divieto, per il giudice, di considerare prevalente o equivalente la circostanza attenuante speciale della “responsabilità non esclusiva” dell’imputato (che comporta la diminuzione della pena fino alla metà) rispetto alle concorrenti aggravanti speciali previste per questi reati, tra cui la guida in stato di ebbrezza alcolica o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti».
Tuttavia – prosegue il comunicato stampa – «la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 222 del Codice della strada là dove prevede l’automatica revoca della patente di guida in tutti i casi di condanna per omicidio e lesioni stradali. In particolare, i giudici costituzionali hanno riconosciuto la legittimità della revoca automatica della patente in caso di condanna per reati stradali aggravati dallo stato di ebbrezza o di alterazione psicofisica per l’assunzione di droghe ma nelle altre ipotesi di condanna per omicidio o lesioni stradali hanno escluso l’automatismo e riconosciuto al giudice il potere di valutare, caso per caso, se applicare, in alternativa alla revoca, la meno grave sanzione della sospensione della patente».
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Condanna per associazione di tipo mafioso e applicazione di una misura di sicurezza ex art. 417 c.p.: è richiesto un accertamento in concreto della pericolosità del soggetto
Cassazione Penale, Sez. I, 17 gennaio 2019 (ud. 13 luglio 2018), n. 2121
Presidente Mazzei, Relatore Casa
Si segnala la pronuncia con cui la prima sezione della Cassazione ha affermato che nell’ipotesi prevista dall’art. 417 c.p. (in base al quale, in caso di condanna per il delitto di associazione di stampo mafioso, è “sempre” ordinata una misura di sicurezza), l’applicazione in concreto di una misura di sicurezza diversa dalla confisca presuppone in ogni caso l’accertamento di un’attuale pericolosità del condannato ai sensi dell’art. 203 c.p., la quale deve essere desunta dalle circostanze indicate nell’art. 133 cod. pen., globalmente considerate, tenendo conto, quindi, non solo della gravità dei reati commessi, ma anche dei fatti successivi e del comportamento osservato dal condannato durante e dopo l’espiazione della pena.
Nell’affermare tale principio, il collegio si è posto in consapevole contrasto con altro orientamento giurisprudenziale secondo cui, nel caso di condanna per il reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, l’applicazione della misura di sicurezza prevista dall’art. 417 cod. pen. non richiederebbe l’accertamento in concreto della pericolosità del soggetto, dovendosi ritenere operante, una presunzione semplice, desunta dalle caratteristiche del sodalizio criminoso e dalla persistenza nel tempo del vincolo criminale (si veda, in tal senso, Cass. pen. Sez. VI Sent., 21-11-2017, n. 2025).
Tale ultimo orientamento – si legge nella decisione – non appare condivisibile, «in quanto non conforme ai principi generali scolpiti in materia di misure di sicurezza personali, chiaramente enunciati negli artt. 203 cod. pen. e 679 cod. proc. pen., nonché desumibili dall’intervenuta abrogazione dell’art. 204 cod. pen., che parlava dì “pericolosità sociale presunta” (abrogazione disposta dall’art. 31 della L. 10 ottobre 1986, n. 663, recante modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, il quale al secondo comma stabilisce che tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che chi ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa), dall’art. 207 cod. pen., che prevede la revoca della misura al venir meno della pericolosità sociale del sottoposto e dall’art. 208 cod. pen., che prevede il riesame della pericolosità, decorso il periodo minimo di durata della misura applicata».
Inoltre – conclude la Cassazione – «non può trascurarsi la maggiore coerenza della linea ermeneutica che qui si sostiene con l’evoluzione giurisprudenziale sviluppatasi nella materia affine delle misure di prevenzione, che ha recentemente condotto le Sezioni Unite di questa Corte a stabilire come anche nei confronti degli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso sia necessario accertare il requisito della “attualità” della pericolosità del proposto».
Il nuovo art. 603 comma 3 bis c.p.p. al vaglio delle prime esperienze applicative. La Corte d’Appello di Milano propone una lettura costituzionalmente orientata dell’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello a seguito di giudizio abbreviato non condizionato
in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 11 – ISSN 2499-846X
Corte di Appello di Milano, Sez. II, Ordinanza, 20 febbraio 2018
Presidente Piffer, Giudici Correra – Marcantonio
La disposizione di cui al comma 3 bis dell’art. 603 c.p.p., introdotta per effetto dell’art. 1, co. 58 della Legge 23 giugno n. 103 (c.d. Legge Orlando), costituisce, come noto, la trasposizione normativa di un principio di derivazione giurisprudenziale, invalso dapprima nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e recepito, successivamente, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in particolare con le “pronunce guida” 28 aprile 2016, n. 27620, Dasgupta e 19 gennaio 2017, n. 18620, Patalano.
Il principio di matrice convenzionale è stato declinato dalla giurisprudenza interna nei termini che seguono: “La previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, relativa al diritto dell’imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU, la quale costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne, implica che, nel caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria, fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, il giudice di appello non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado”.
L’ordinanza della Corte di Appello di Milano qui commentata, tra i primi esempi applicativi della norma di nuovo conio (la fattispecie processuale è quella di un giudizio di appello proposto dalla Procura Generale e da alcune parti civili avverso una sentenza di assoluzione emessa in esito a rito abbreviato non condizionato), si colloca in un percorso argomentativo virtuoso e di sintesi delle diverse variabili in gioco.
La Corte di Appello guarda alla novella – e questo è forse l’aspetto di maggior pregio esegetico – non come ad un’occasione mancata, ma come ad un’occasione colta; e lo fa probabilmente ben oltre quelle che erano le consapevoli intenzioni del legislatore. Il recupero di un’opzione interpretativa ispirata al tenore letterale della norma di cui all’art. 603 comma 3 bis può apparire prima facie una soluzione semplicistica (soprattutto se portata sul terreno del ragionamento secondo cui la norma non può riferirsi anche al rito abbreviato perché non ha senso obbligare il giudice di appello alla rinnovazione di qualcosa che in primo grado non si è celebrato), ma ben presto ci si rende conto che essa costituisce la soluzione di gran parte dei problemi esegetici che hanno assediato l’interprete fin dal recepimento del principio di matrice convenzionale nel nostro ordinamento.
Sezioni Unite: la diversità delle sostanze stupefacenti non è ostativa alla configurabilità dell’ipotesi di lieve entità
Cassazione Penale, Sezioni Unite, 9 novembre 2018 (ud. 27 settembre 2018), n. 51063
Presidente Carcano, Relatore Pistorelli
Come avevamo anticipato, con ordinanza n. 23547/2018 era stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto in tema di stupefacenti: «se la diversità di sostanze stupefacenti, a prescindere dal dato quantitativo, osti alla configurabilità dell’ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309 del 1990; se, in caso negativo, il reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 possa concorrere con uno dei reati di cui ai commi 1 e 4 del medesimo art. 73».
Con sentenza depositata il 9 novembre 2018, le Sezioni Unite hanno affermato che la diversità di sostanze stupefacenti oggetto della condotta non è di per sé ostativa alla configurabilità del reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in quanto è necessario procedere ad una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta selezionati in relazione a tutti gli indici sintomatici previsti dalla suddetta disposizione al fine di determinare la lieve entità del fatto.
I giudici di legittimità hanno anche aggiunto che la detenzione nel medesimo contesto di sostanze stupefacenti tabellarmente eterogenee, qualificabile nel suo complesso come fatto di lieve entità, integra un unico reato e non una pluralità di reati in concorso tra loro.
La decisione delle Sezioni Unite sulla concessione della sospensione condizionale della pena in appello
Cassazione Penale, Sezioni Unite, ud. 25 ottobre 2018, informazione provvisoria n. 27
Presidente Carcano, Relatore Mazzei
Con ordinanza n. 38398 del 2018, era stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: «se, e a quali condizioni, il giudice d’appello debba motivare il concreto esercizio, positivo o negativo, del potere-dovere di applicare d’ufficio la sospensione condizionale della pena».
All’udienza del 25 ottobre 2018, le Sezioni Unite hanno fornito la seguente soluzione: «fermo il dovere di motivazione da parte del giudice, l’imputato non può dolersi della mancata applicazione della sospensione condizionale della pena, qualora non l’abbia richiesta nel giudizio di appello».
Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto Legge 4 ottobre 2018 n. 113 (cd. decreto sicurezza)
E’ stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 231 del 4 ottobre 2018 (ed è in vigore dal 5 ottobre 2018), il Decreto Legge 4 ottobre 2018, n. 113 (cd. decreto sicurezza), recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”.
Tra le novità, si segnala la modifica all’art. 633 c.p. (invasione di terreni o edifici) al quale, dopo il secondo comma, è stato inserito il seguente: «Nelle ipotesi di cui al secondo comma, si applica la pena della reclusione fino a quattro anni congiuntamente alla multa da 206 euro a 2.064 euro, nei confronti dei promotori e organizzatori dell’invasione, nonchè di coloro che hanno compiuto il fatto armati».
Modificato anche l’art. 266 c.p.p. (limiti di ammissibilità delle intercettazioni) dove al comma 1 lettera f-ter) le parole «516 e 517-quater del codice penale;» sono state sostituite dalle seguenti: «516, 517-quater e 633, terzo comma, del codice penale;».
L’art. 7 del Decreto è intervenuto in tema di “Disposizioni in materia di diniego e revoca della protezione internazionale” apportando le seguenti modifiche al decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251:
a) all’articolo 12, al comma 1, lettera c), le parole «del codice di procedura penale» sono sostituite dalle seguenti: «del codice di procedura penale ovvero dagli articoli 336, 583, 583-bis, 583-quater, 624 nell’ipotesi aggravata di cui all’articolo 625, primo comma, numero 3), e 624-bis, primo comma, nell’ipotesi aggravata di cui all’articolo 625, primo comma, numero 3), del codice penale. I reati di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), numeri 2), 6) e 7-bis), del codice di procedura penale, sono rilevanti anche nelle fattispecie non aggravate»;
b) all’articolo 16, al comma 1, lettera d-bis) le parole «del codice di procedura penale» sono sostituite dalle seguenti: «del codice di procedura penale ovvero dagli articoli 336, 583, 583-bis, 583-quater, 624 nell’ipotesi aggravata di cui all’articolo 625, primo comma, numero 3), e 624-bis, primo comma, nell’ipotesi aggravata di cui all’articolo 625, comma 1, numero 3), del codice penale. I reati di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), numeri 2), 6) e 7-bis), del codice di procedura penale, sono rilevanti anche nelle fattispecie non aggravate.».
L’art. 16 del Decreto è intervenuto in tema di “controllo, anche attraverso dispositivi elettronici, dell’ottemperanza al provvedimento di allontanamento dalla casa familiare” modificando l’art. 282-bis c.6 c.p.p. (allontanamento dalla casa familiare) aggiungendo dopo la parola «571,» la seguente: «572,» e dopo le parole: «612, secondo comma,» la seguente: «612-bis,».
Sezioni Unite: il decreto di sequestro probatorio deve contenere una specifica motivazione in relazione alla finalità perseguita per l’accertamento dei fatti anche laddove abbia ad oggetto cose costituenti corpo di reato
in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 9 – ISSN 2499-846X
Cassazione Penale, Sez. Un., 27 luglio 2018 (ud. 19 aprile 2018), n. 36072
Presidente Carcano, Relatore Andreazza
Nel contributo viene commentata la pronuncia n. 36072 del 2018, con cui le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato che il decreto di sequestro probatorio, così come l’eventuale decreto di convalida, anche qualora abbia ad oggetto cose costituenti corpo di reato, deve contenere una specifica motivazione in ordine alla finalità perseguita per l’accertamento dei fatti.
Concessione della sospensione condizionale della pena in appello: una questione alle Sezioni Unite
Cassazione Penale, Sez. III, 9 agosto 2018 (ud. 17 aprile 2018), n. 38398
Presidente Savani, Relatore Aceto
Si segnala l’ordinanza con cui la terza sezione penale della Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite una questione di diritto relativa alla cognizione del giudice di appello.
La questione intorno alla quale si registra un contrasto giurisprudenziale attiene, in particolare, al potere di applicare d’ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena ai sensi del comma 5 dell’art. 597 c.p.p., in base al quale «con la sentenza possono essere applicate anche di ufficio la sospensione condizionale della pena, la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e una o più circostanze attenuanti; può essere altresì effettuato, quando occorre, il giudizio di comparazione a norma dell’articolo 69 del codice penale».
Il contrasto – si legge nell’ordinanza – verte sull’esistenza dell’obbligo del giudice dell’appello di motivare la mancata applicazione d’ufficio del beneficio della sospensione condizionale della pena anche in assenza di specifica richiesta:
- secondo un indirizzo, il giudice d’appello non è tenuto a concedere d’ufficio la sospensione condizionale della pena né a motivare specificamente sul punto, quando l’interessato si limiti, nell’atto di impugnazione e in sede di discussione, ad un generico e assertivo richiamo dei benefici di legge, senza indicare alcun elemento di fatto astrattamente idoneo a fondare l’accoglimento della richiesta;
- un diverso indirizzo sostiene, invece, che il giudice d’appello deve, sia pure sinteticamente, dare ragione del concreto esercizio, positivo o negativo, del potere-dovere attribuitogli dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., qualora ricorrano le condizioni previste dalla legge per l’applicazione della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, tanto più quando una delle parti (anche il pubblico ministero nell’interesse dell’imputato) ne abbia fatto esplicita richiesta, con riferimento a dati di fatto astrattamente idonei all’accoglimento della richiesta stessa.
I due orientamenti – conclude la Corte – «convergono sulla necessità della astratta sussistenza delle condizioni di applicazione della sospensione condizionale della pena e, dunque, in buona sostanza sulla sussistenza del concreto interesse dell’imputato a lamentarsi dell’omessa motivazione; ove tali condizioni non sussistono (e comunque non vengono nemmeno dedotte in sede di legittimità), il giudice dell’appello non è tenuto a giustificare l’omesso esercizio delle prerogative che l’art. 597, u.c., cod. proc. pen., gli assegna d’ufficio. Al contrario, se le condizioni per la astratta applicazione del beneficio sussistono, è comunque necessario, secondo alcune pronunce, l’impulso proveniente dall’imputato ai fini dell’esercizio del potere di applicare d’ufficio la sospensione condizionale della pena, con conseguente obbligo di motivare la decisione solo in presenza della richiesta dell’imputato stesso; secondo altre, invece, tale impulso non è richiesto sicché il giudice dell’appello è obbligato a motivare comunque le ragioni della propria decisione, qualunque essa sia».
Alla luce di tale contrasto, la Corte ha rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione: «se il giudice dell’appello deve rendere conto del concreto esercizio, positivo o negativo, del dovere attribuitogli dall’art. 597 c. 5 c.p.p., di applicare d’ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena in assenza di specifica richiesta».
La decisione delle Sezioni Unite sulla legge applicabile nel caso in cui, tra condotta ed evento, entri in vigore una legge più sfavorevole
Cassazione Penale, Sezioni Unite, ud. 19 luglio 2018, informazione provvisoria
Presidente Carcano, Relatore Caputo
Come avevamo anticipato, con ordinanza n. 21286/2018, era stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: «se, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazioni il trattamento sanzionatorio vigente al momento della condotta ovvero quello vigente al momento dell’evento».
Nel caso di specie, la condotta che cagionava la morte della persona offesa risaliva al 20 gennaio 2016, mentre il decesso interveniva il 28 agosto 2016: nell’arco temporale intercorrente tra tali momenti, entrava in vigore la Legge 23 marzo 2016, n. 41 (“Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali, nonché disposizioni di coordinamento al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274”, pubblicata nella Gazz. Uff. 24 marzo 2016, n. 70) che introduceva nel nostro ordinamento il reato di cui all’art. 589-bis c.p.
Il tema attiene, pertanto, al rapporto intercorrente tra tempus commissi delicti e trattamento sanzionatorio, con riferimento al quale la giurisprudenza si richiama alla legge penale in vigore al momento di commissione, ovvero di consumazione del reato; secondo l’indirizzo prevalente, «per i reati di evento tale momento coincide con quello in cui l’evento si verifica, anche laddove ciò avvenga a distanza di tempo dal momento della condotta».
All’udienza del 19 luglio 2018, le Sezioni Unite hanno fornito la seguente soluzione: «trova applicazione il trattamento sanzionatorio vigente al momento della condotta».
Divieto triennale di concessione della detenzione domiciliare speciale al condannato nei cui confronti sia stata disposta la revoca di una misura alternativa: sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater O.P.
Cassazione Penale, Sez. I, 13 luglio 2018 (ud. 10 luglio 2018), n. 32331
Presidente Iasillo, Relatore Centofanti
Si segnala l’ordinanza con cui la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater O.P. nella parte in cui, in base al combinato disposto dei primi tre commi, stabiliscono il divieto triennale di concessione delle misure alternative a seguito della revoca di altra misura alternativa.
Art. 58-quater O.P. – Divieto di concessione di benefici
1. L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio, l’affidamento in prova al servizio sociale, nei casi previsti dall’articolo 47, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi al condannato che sia stato riconosciuto colpevole di una condotta punibile a norma dell’articolo 385 del codice penale.
2. La disposizione del comma 1 si applica anche al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa ai sensi dell’art. 47, comma 11, dell’art. 47-ter, comma 6, o dell’art. 51, primo comma.
3. Il divieto di concessione dei benefici opera per un periodo di tre anni dal momento in cui è ripresa l’esecuzione della custodia o della pena o è stato emesso il provvedimento di revoca indicato nel comma 2.
4. I condannati per i delitti di cui agli articoli 289-bis e 630 del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato non sono ammessi ad alcuno dei benefici indicati nel comma 1 dell’art. 4-bis se non abbiano effettivamente espiato almeno i due terzi della pena irrogata o, nel caso dell’ergastolo, almeno ventisei anni.
5. Oltre a quanto previsto dai commi 1 e 3, l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI non possono essere concessi, o se già concessi sono revocati, ai condannati per taluni dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis, nei cui confronti si procede o è pronunciata condanna per un delitto doloso punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, commesso da chi ha posto in essere una condotta punibile a norma dell’art. 385 del codice penale ovvero durante il lavoro all’esterno o la fruizione di un permesso premio o di una misura alternativa alla detenzione.
6. Ai fini dell’applicazione della disposizione di cui al comma 5, l’autorità che procede per il nuovo delitto ne dà comunicazione al magistrato di sorveglianza del luogo di ultima detenzione dell’imputato.
7. Il divieto di concessione dei benefici di cui al comma 5 opera per un periodo di cinque anni dal momento in cui è ripresa l’esecuzione della custodia o della pena o è stato emesso il provvedimento di revoca della misura.
7-bis. L’affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall’articolo 47, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi più di una volta al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma, del codice penale.
In particolare, la Corte di Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale – con riferimento agli artt. 3, primo comma, 29, primo comma, 30, primo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione – dell’art. 58-quater, primo, secondo e terzo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui essi, nel loro combinato disposto, prevedono che non possa essere concessa, per la durata di tre anni, la detenzione domiciliare speciale, prevista dall’art. 47-quinquies della stessa legge n. 354 del 1975, al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa, ai sensi dell’art. 47, comma 11, dell’art. 47-ter, comma 6, o dell’art. 51, primo comma, della legge medesima.
Autoriciclaggio: la Cassazione definisce i contorni della clausola di non punibilità del quarto comma dell’art. 648-ter.1.
Cassazione Penale, Sez. II, 5 luglio 2018 (ud. 7 giugno 2018), n. 30399
Presidente Davigo, Relatore Rago
Si segnala, in tema di autoriciclaggio, la sentenza con cui la Corte di Cassazione si è pronunciata sull’interpretazione da dare al quarto comma dell’art. 648-ter.1. c.p. ai sensi del quale, come è noto, «fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale».
Si tratta di una clausola – si legge nella decisione – su cui è sorto un dibattito in dottrina all’indomani dell’introduzione nel nostro ordinamento del delitto di autoriciclaggio:
- secondo una prima tesi – restrittiva e di stretta interpretazione – la norma andrebbe interpretata secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle suddette parole e cioè nel senso che la suddetta clausola non si applica alle condotte descritte nei commi precedenti: “fuori dei casi [….]” a livello semantico, null’altro significa che la fattispecie prevista è diversa ed autonoma rispetto a quelle previste nei “commi precedenti“. Tale tesi pone, dunque, il suo baricentro sulla condotta descritta nel primo comma: di conseguenza, una volta che la fattispecie criminosa sia integra in tutti i suoi requisiti, l’agente è sanzionabile penalmente essendo del tutto indifferente che, alla fine delle operazioni di autoriciclaggio, egli abbia “meramente” utilizzato o goduto personalmente dei suddetti beni a titolo personale.
- una seconda tesi – estensiva – tende a ricondurre nell’alveo delle condotte non punibili tutte quelle che, seppure rientranti in quelle descritte nel primo comma, abbiano come risultato finale quello della mera utilizzazione o godimento personale dei proventi del reato presupposto.
La Cassazione ha aderito al primo orientamento affermando il seguente principio di diritto: «la clausola di non punibilità prevista nel comma quarto dell’art. 648 ter 1 cod. pen. a norma della quale “fuori dei casi di cui ai commi precedenti [….]” va intesa ed interpretata nel senso fatto palese dal significato proprio delle suddette parole e cioè che la fattispecie ivi prevista non si applica alle condotte descritte nei commi precedenti. Di conseguenza, l’agente può andare esente da responsabilità penale solo e soltanto se utilizzi o goda dei beni proventi del delitto presupposto in modo diretto e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa».
Contestazione di una circostanza aggravante e facoltà di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova: dichiarata l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 517 c.p.p.
Corte Costituzionale, 5 luglio 2018 (ud. 21 marzo 2018), sentenza n. 141
Presidente e Relatore Lattanzi
Segnaliamo il deposito della sentenza n. 141 del 2018 con cui la Corte Costituzionale si è pronunciata su una questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p. (reato concorrente e circostanze aggravanti risultanti dal dibattimento) sollevata dal Tribunale di Salerno.
Il giudice a quo, in particolare, dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p. «nella parte in cui non prevede che, contestata nel corso del giudizio dibattimentale una circostanza aggravante fondata su elementi già risultanti dagli atti di indagine, l’imputato abbia facoltà di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova [ai] sensi degli artt. 168 bis c.p. e 464 bis e ss. c.p.p. relativamente al reato oggetto della nuova contestazione».
La Corte Costituzionale ha ritenuto la questione fondata e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 517 c.p.p., per contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., nella parte in cui, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Disastri naturali e responsabilità penale: criticità relative al c.d. processo “grande rischi”
Le questioni sollevate dal c.d. processo “grande rischi” sono molteplici e di vario genere. Le problematiche maggiormente evidenziate attengono all’accertamento del nesso causale, e la prevedibilità dell’evento, aspetti dai quali è possibile desumere un costante scivolamento della responsabilità penale dei soggetti esercenti attività di protezione civile, a seguito del verificarsi di disastri naturali, verso il principio di precauzione, deriva che si evidenzia, inoltre, con riferimento all’individuazione delle regole cautelari cui tali soggetti debbono uniformarsi.
Nell’ottica dell’accertamento del nesso eziologico la ricerca di una legge scientifica di copertura nell’ambito dei condizionamenti piscologici ha condotto sul terreno incerto della causalità psichica nei reati colposi.
Per quel che concerne la prevedibilità è opportuno evidenziare l’evoluzione giurisprudenziale in materia di disastri naturali, attraverso il passaggio dalla prevedibilità dell’evento concreto alla prevedibilità del genere di eventi nel caso del disastro del Vajont, alla prevedibilità dell’evento limite nella vicenda di Sarno, per giungere, infine, al concetto di prevedibilità del rischio di evento in relazione all’evento tellurico che colpì l’Aquila.
La deriva giurisprudenziale di cui sopra comporta il rischio dell’affermarsi della c.d. Protezione Civile difensiva, che condurrebbe gli organi di Protezione Civile a reagire con misure sproporzionate a situazioni anche di modesta entità nell’ottica di un atteggiamento ultraprudenziale, finendo con l’impoverire le attività svolte dalla Protezione Civile stessa.
La costante ricerca di un colpevole ha sempre contraddistinto la materia in questione, basti pensare che a seguito del terremoto dell’Aquila uno studio condotto sull’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, nell’ambito della pratica c.d. di framing, ha evidenziato come il 24% degli articoli pubblicati sui quotidiani nazionali evocava la ricerca di un colpevole, un dato secondo solo agli articoli inerenti alle storie delle vittime (27%).
La ricerca di un capro espiatorio, sospinta dal «populismo mediatico» spinge, inoltre, a tentare di individuare le responsabilità su quei soggetti che abbiano posto in essere le condotte più prossime all’evento, riducendo l’arco temporale che ha comportato l’evento stesso e dimenticando che «le catastrofi non dipendono mai da una singola decisione, ma hanno spesso una incubazione molto lunga e più di un responsabile».
Concessione della sospensione condizionale della pena per una seconda volta a seguito dell’estinzione del reato
in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 6 – ISSN 2499-846X
Cassazione Penale, Sez. I, 22 maggio 2018 (ud. 9 gennaio 2018), n.22872
Presidente Mazzei, Relatore Cocomello
La Corte di Cassazione, Sez. I Pen., ha emesso una interessante e degna di nota sentenza in punto sospensione condizionale della pena.
La Suprema Corte ha lapidariamente introdotto il principio di diritto secondo cui la sospensione condizionale della pena può essere concessa una seconda volta anche qualora la pena da infliggere, cumulata con quella irrogata con la precedente condanna, superi i limiti stabiliti dall’art. 163 c.p., a patto che per la prima condanna il reato sia stato dichiarato estinto.
Nel caso in esame la Corte d’Appello di Milano, in qualità di Giudice dell’esecuzione, rigettava la richiesta di revoca della sospensione condizionale della pena richiesta dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano.
Il provvedimento fondava il rigetto dell’istanza sulla considerazione che il giudice di merito aveva ampiamente valutato la concessione del beneficio e che il Giudice dell’esecuzione non poteva intervenire su tale giudizio che doveva essere oggetto di rituale impugnazione dalla parte dell’Ufficio di procura.
Avverso il suddetto provvedimento proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano denunciando la violazione dell’art.168 c.p. Il Procuratore Generale evidenziava come si verteva in ipotesi di revoca del beneficio ai sensi dell’art.168, ultimo comma c.p., avendo il condannato beneficiato della sospensione condizionale della pena in relazione ad altro titolo esecutivo, con superamento del limite dei due anni di reclusione.
La Corte di Cassazione, Sez. I Pen., ha ritenuto il ricorso inammissibile ed ha affermato che al momento della concessione del beneficio di cui si è invocata la revoca, cioè al momento dell’emissione della seconda condanna con sospensione condizionale della pena, il reato oggetto della prima condanna, per cui era già stata concessa la sospensione condizionale della pena, presupposto legittimante la richiesta di revoca, era estinto ai sensi dell’art.167, c.1 c.p..
L’imputato era, infatti, stato condannato con sentenza emessa negli anni ’90 alla pena di mesi 6 di reclusione, pena sospesa. Il reato era stato dichiarato estinto ai sensi dell’art.167 c.p. nell’anno 2012. Con successiva sentenza emessa nel 2015 l’imputato è stato condannato alla pena di anni 1 e mesi 8 di reclusione, pena sospesa.
La seconda condanna, cumulata con quella irrogata con la precedente condanna, supera i limiti stabiliti dall’art.163 c.p.
Tuttavia, la Suprema Corte ha affermato che la sospensione condizionale della pena, intervenuta molto tempo dopo ben poteva essere concessa dal giudice della cognizione ai sensi dell’art.163 c.p. e pertanto la stessa non doveva essere revocata come richiesto dall’Ufficio ricorrente.
Continuazione tra reati puniti con pene eterogenee: l’informazione provvisoria delle Sezioni Unite
Cassazione Penale, Sezioni Unite, informazione provvisoria, ud. 21 giugno 2018
Presidente Carcano, Relatore Lapalorcia
Come avevamo anticipato, con ordinanza n. 16104, erano state rimesse alle Sezioni Unite le seguenti questioni di diritto:
- «se sia ammissibile la continuazione tra reati puniti con pene eterogenee»
- «se, in ossequio al favor rei, ferma la configurabilità della continuazione tra reati puniti con pene eterogenee, ove il reato più grave sia punito con la pena detentiva e quello satellite esclusivamente con la pena pecuniaria, l’aumento di pena per quest’ultimo debba conservare il genere di pena pecuniaria».
All’udienza del 21 giugno u.s., le Sezioni Unite hanno fornito le seguenti soluzioni:
- sul primo quesito: affermativa.
- sul secondo quesito: affermativa, con la precisazione che l’aumento di pena per il reato satellite va comunque effettuato secondo il criterio della pena unitaria progressiva per moltiplicazione, rispettando tuttavia, per il principio di legalità della pena e del favor rei, il genere della pena previsto per il reato satellite, nel senso che l’aumento della pena detentiva del reato più grave andrà ragguagliato ai sensi dell’art. 135 cod. pen.
Presunte violenze sessuali, dopo 13 anni finisce il calvario di un noto professionista.
Medico di Paglieta assolto con formula piena
articolo pubblicato su noixvoi24 – di Paola Calvano
Presunta violenza sessuale: dopo un’odissea giudiziaria durata quasi tredici anni è arrivata la parola fine alla vicenda che ha visto in veste di imputato il dottor Carlo Cericola, 66 anni di Paglieta. La Corte di Appello di Perugia il 18 giugno ha emesso la sentenza di assoluzione del professionista con la formula “il fatto non sussiste”.
La Corte, è arrivata alle conclusioni assolutorie tenendo conto anche dei risultati della perizia compiuta da un esperto per verificare la correttezza delle terapie eseguite dal medico, ed in particolare quelle a cui era stata sottoposta P.T. una paziente che aveva denunciato il professionista.
“La perizia parla chiaro”, dicono soddisfatti i difensori gli avvocati, Giovanni Cerella e Giandomenico Caiazza. “Il medico ha sempre operato con una metodologia che rientrava ampiamente nella cosiddetta ars medica”.
Carlo Cericola, era accusato di due episodi di violenza sessuale nei confronti di due pazienti che frequentavano il suo centro medico a Paglieta.
Per uno dei due capi d’imputazione, il sanitario, che era anche stato arrestato e sottoposto a misura cautelare, venne assolto dal Tribunale di Lanciano con sentenza confermata anche dalla Corte d’Appello de L’Aquila prima e dalla Cassazione poi.
Le contestazioni relative al secondo capo d’imputazione, invece, erano scaturite da una successiva indagine dei carabinieri di Atessa che avevano esaminato la documentazione medica contenuta negli archivi della clinica in cui il medico operava e relativa a dieci anni di attività del professionista.
Durante le indagini, una paziente, P.T. presentò denuncia di violenza sessuale affermando di aver subito la violenza nel corso di un esame posturale e durante alcune sedute di terapia di medicina alternativa a cui si era sottoposta mesi prima. Sulla base delle dichiarazioni della parte offesa il medico venne condannato in primo grado a 5 anni di reclusione dal Tribunale di Lanciano, pena confermata in appello dalla Corte territoriale de L’Aquila.
La Suprema Corte di Cassazione ha invece annullato la sentenza rinviando il processo alla Corte d’Appello di Perugia, ritenendo che i primi due gradi di giudizio non avessero chiarito del tutto se le pratiche poste in essere dal dottor Cericola fossero o meno compatibili con la cura delle patologie da cui era affetta la paziente.
A Perugia, Cericola, difeso dagli avvocati Giovanni Cerella e Giandomenico Caiazza, ha ancora una volta ribadito, con forza, la sua innocenza. “Dopo anni di sofferenze e battaglie”, hanno commentato i difensori “il nostro assistito ha finalmente avuto giustizia con una sentenza che ha dissipato ogni dubbio circa il suo operato medico e ha restituito la dignità che merita un professionista di livello”.
P.C.
No alla “delega orale”: la delega prevista dall’art. 102 c.p.p. (sostituto del difensore) deve essere conferita necessariamente per iscritto
Cassazione Penale, Sez. V, 11 giugno 2018 (ud. 26 aprile 2018), n. 26606
Presidente Palla, Relatore Settembre
Con la pronuncia allegata, la Cassazione ha affrontato il tema relativo alle modalità di conferimento – da parte del difensore – della delega prevista dall’art. 102 c.p.p. (sostituto del difensore): ossia, in particolare, se debba essere conferita necessariamente per iscritto ovvero se possa essere conferita oralmente.
La prima soluzione – si legge nella sentenza – è quella giuridicamente corretta.
Ad avviso del collegio, è estremamente chiaro «il disposto degli artt. 96 cod. proc. pen. e 34 delle D.A.C.P.P.:
- la prima – nel prevedere, per l’imputato, il diritto di nominare non più di due difensori di fiducia – stabilisce, al secondo comma, che la nomina è fatta con dichiarazione resa all’autorità procedente ovvero consegnata alla stessa dal difensore o trasmessa con raccomandata;
- la seconda – rubricata espressamente designazione del sostituto del difensore – stabilisce che il difensore designa il sostituto nelle forme indicate nell’art. 96, comma 2, del codice».
Chiave di lettura – prosegue la Corte – «è, quindi, l’art. 96, comma 2, cod. proc. pen., per il quale la nomina (come la designazione del sostituto, in virtù del rimando fatto dall’art. 34 D.A.c.p.p.) deve essere documentata per iscritto, perché solo in tal modo può avere effetto dinanzi all’Autorità giudiziaria. Infatti: a) se la nomina è fatta con “dichiarazione resa all’autorità procedente”, essa è necessariamente inserita in un verbale, non essendo concepibile una nomina affidata alla memoria degli operatori giudiziari; b) se “è consegnata all’autorità procedente dal difensore” vuol dire che è stata effettuata per iscritto e in tale forma consegnata all’Autorità giudiziaria; c) se “è trasmessa con raccomandata” all’autorità giudiziaria procedente vuol dire che è stata previamente raccolta in forma scritta»
Ne deriva che, «dovendo la designazione del sostituto avvenire nelle stesse forme, non è ammissibile la designazione orale. Essa può avvenire con dichiarazione rese personalmente dal difensore all’autorità procedente (nel qual caso è inserita a verbale), ovvero consegnata o trasmessa per iscritto all’autorità procedente».
Né a conclusione diversa è possibile pervenire se si ha riguardo alla disciplina positiva della professione forense, contenuta nel R.D.L. n. 1578 del 27 novembre 1933 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore) e nella legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense): l’art. 9 del R.D.L. 1578/33 – norma che non è stata abrogata dalla legge 31 dicembre 2012, n. 247 – prevede, infatti, espressamente che “il procuratore può, sotto la sua responsabilità, farsi rappresentare da un altro procuratore esercente presso uno dei Tribunali della circoscrizione della Corte d’appello e Sezioni distaccate. L’incarico è dato di volta in volta per iscritto negli atti della causa o con dichiarazione separata”.
Ovviamente – conclude la Corte – stesso discorso «vale, a maggior ragione, per il sostituto del difensore delle altre parti private(art. 100 cod. proc. pen. ) e della persona offesa (art. 101 cod. proc. pen. ), dal momento che l’art. 34 D.A. c.p.p. si riferisce, indistintamente, ad ogni difensore, sia per la sua collocazione sistematica (è ricompreso nel capo IV del titolo I, che detta
norme per ogni “difensore”), sia per il suo contenuto semantico (parla, genericamente, del “difensore”)».
Omicidio e lesioni stradali (aggravate dallo stato di ebbrezza) e contravvenzione di guida sotto l’influenza dell’alcool (art. 186 c.d.s.): dopo il 25 marzo 2016 si applica la disciplina del reato complesso
Cassazione Penale, Sez. IV, 12 giugno 2018 (ud. 29 maggio 2018), n. 26857
Presidente Piccialli, Relatore Cenci
Si segnala la pronuncia con cui la quarta sezione penale si è pronunciata sul rapporto tra le fattispecie di omicidio e lesioni stradali aggravate dallo stato di stato di ebbrezza del conducente e la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 186 del d. lgs. 285 del 1992 (guida sotto l’influenza dell’alcool).
A seguito della introduzione delle innovative fattispecie autonome dell’omicidio stradale e delle lesioni personali stradali gravi o gravissime – si legge nella sentenza – non può più aderirsi alla interpretazione, sinora diffusa, secondo cui si ha concorso di reati, e non un reato complesso, in caso di omicidio colposo qualificato dalla circostanza aggravante della violazione di norme sulla circolazione stradale, quando detta violazione dia, di per sé, luogo ad un illecito contravvenzionale.
E’ stato, quindi, affermato il seguente principio di diritto: «nel caso in cui si contesti all’imputato di essersi, dopo il 25 marzo 2016 (data di entrata in vigore della legge n. 41 del 2016), posto alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza e di avere in tale stato cagionato, per colpa, la morte di una o più persone – ovvero lesioni gravi o gravissime alle stesse – dovrà prendersi atto che la condotta di guida in stato di ebbrezza alcolica viene a perdere la propria autonomia, in quanto circostanza aggravante dei reati di cui agli artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, cod. pen., con conseguente necessaria applicazione della disciplina sul reato complesso ai sensi dell’art. 84, comma 1, cod. pen., ed esclusione invece dell’applicabilità di quella generale sul concorso di reati».
La stessa soluzione dovrà, naturalmente, valere – precisa la Corte – nel caso di guida in stato di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanza stupefacenti o psicotrope (artt. 589-bis, comma 2, e 590-bis, comma 2, cod. pen.).
Le Sezioni Unite in tema di pornografia minorile: non è necessario l’accertamento del pericolo di diffusione del materiale pedopornografico
Cassazione Penale, Sezioni Unite, ud. 31 maggio 2018, informazione provvisoria
Presidente Carcano, Relatore Andronio
1. Come avevamo anticipato, con ordinanza n. 10167/2018, la terza sezione penale della Corte di Cassazione aveva rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto in tema di pornografia minorile: «se, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 600-ter comma 1 n. 1 c.p., con riferimento alla condotta di produzione del materiale pedopornografico, sia ancora necessario, stante la formulazione introdotta dalla L. 6.2.2006 n. 38, l’accertamento del pericolo di diffusione del suddetto materiale, come richiesto dalla sentenza a Sezioni Unite 31.5.2000 n. 13, confermata dalla giurisprudenza di questa sezione anche dopo la modifica normativa citata».
2. La Corte aveva evidenziato che, sulla base del principio affermato dalle Sezioni Unite n. 13 del 2000, poichè il delitto di pornografia minorile ha natura di reato di pericolo concreto, «il fatto di sfruttare minori degli anni diciotto al fine di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico, salvo l’eventuale ipotizzabilità di altri reati, non deve necessariamente essere caratterizzato dal fine di lucro o dall’impiego di una pluralità di minori, ma deve avere una consistenza tale (attraverso elementi sintomatici da accertare di volta in volta) da implicare il pericolo concreto di diffusione del materiale prodotto».
Tuttavia – proseguiva l’ordinanza – a distanza di molti anni dalla citata decisione delle Sezioni Unite e alla luce delle osservazioni della dottrina «si sollecitano importanti interrogativi sulla correttezza dell’interpretazione delle Sezioni Unite su un sistema normativo in tema di pedopornografia mirante ad anticipare la repressione delle condotte già alla produzione del materiale, indipendentemente dall’uso personale o meno» dovendosi, pertanto, «mettere in discussione l’accettazione dell’assioma delle Sezioni Unite del 2000 della necessità del pericolo di diffusione».
«Non v’è nessun dubbio – si legge nel provvedimento – che la politica criminale in tema di pornografia minorile, sia a livello nazionale che internazionale, si imperni sulla prevenzione del crimine, sul presupposto ideologico dell’intrinseca pericolosità delle possibili manifestazioni della pedofilia», motivo per cui, «sia nella normativa sovranazionale che in quella nazionale si prescinde dal pericolo della diffusione del materiale, perché le condotte della produzione, detenzione, divulgazione, cessione ecc… sono tutte autonomamente distinte e tutte di danno».
Gli argomenti delle Sezioni unite n. 13/2000 – concludeva l’ordinanza – sono «tutti viziati da un errore di fondo, che lo sfruttamento o l’utilizzazione, che dir si voglia, del minore, pur prescindendo dallo scopo lucrativo, presuppongano pur sempre un “uso esterno” del materiale. Non è così. Anche la produzione ad uso personale è reato, perché la stessa relazione, sia pure senza contatto fisico, tra adulto e minore di anni 18, contemplata dall’art. 600-ter c.p., è considerata come degradante e gravemente offensiva della dignità del minore in funzione del suo sviluppo sano ed armonioso»
3. All’udienza del 31 maggio, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in linea con le argomentazioni esposte nell’ordinanza, hanno fornito risposta negativa al quesito sopra riportato: pertanto, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 600-ter c.1 n. 1 c.p. – con riferimento alla condotta di produzione del materiale pedopornografico – non è necessario l’accertamento del pericolo di diffusione del suddetto materiale.
Concorso nel delitto di estorsione: sulla rilevanza della presenza fisica quale circostanza in grado di rafforzare l’effetto intimidatorio della pretesa estorsiva
Cassazione Penale, Sez. II, 25 maggio 2018 (ud. 9 maggio 2018), n. 23084
Presidente Gallo, Relatore Pardo
In tema di concorso di persone nel delitto di estorsione, si segnala la pronuncia con cui la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha ribadito l’orientamento giurisprudenziale secondo cui «concorre nel delitto di tentata estorsione aggravata, ai sensi dell’art. 7 D.L. n. 152 del 1991, colui che, pur rimanendo sempre silente, accompagni altri incaricati di formulare la richiesta di “pizzo”, assista alla espressa richiesta e si allontani con l’autore della stessa».
In presenza di tali circostanze – ha precisato la Corte – la condotta «svolge un contributo materiale e morale in relazione al rafforzamento dell’effetto intimidatorio della pretesa estorsiva ed alla rappresentazione dell’esistenza di un gruppo organizzato, sicchè in alcun modo può essere reclamata l’ipotesi della connivenza non punibile».
In senso conforme si veda Sez. II n. 47598/2016 secondo cui «concorre nel delitto di tentata estorsione aggravata, ai sensi dell’art. 7 D.L. n. 152 del 1991, colui che, pur rimanendo sempre silente, accompagni altri incaricati di formulare la richiesta di “pizzo”, assista alla espressa richiesta e si allontani con l’autore della stessa» nonché Sez. II n. 50323/2013 secondo cui «in tema di concorso di persone nel reato, anche la semplice presenza sul luogo dell’esecuzione del reato può essere sufficiente ad integrare gli estremi della partecipazione criminosa quando, palesando chiara adesione alla condotta dell’autore del fatto, sia servita a fornirgli stimolo all’azione e un maggiore senso di sicurezza».
Sull’operatività della procedura di cui all’art. 12 comma 2 D.lgs. n. 36 del 2018 (in tema di procedibilità a querela) nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile
Cassazione Penale, Sez. II, 23 maggio 2018 (ud. 9 maggio 2018), n. 23077
Presidente Gallo, Relatore Rago
La seconda sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata sulla nuova procedura prevista dall’art. 12, comma 2 del D. Lgs. n. 36 del 2018 (entrato in vigore in data 9 maggio 2018) secondo cui, per i reati in precedenza perseguibili d’ufficio, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso decreto, il pubblico ministero o il giudice, dopo l’esercizio dell’azione penale, è tenuto ad informare la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela.
Art. 12 D. Lgs. n. 36 del 2018 (Disposizioni transitorie in materia di perseguibilità a querela)
1. Per i reati perseguibili a querela in base alle disposizioni del presente decreto, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato.
2. Se è pendente il procedimento, il pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, o il giudice, dopo l’esercizio dell’azione penale, anche, se necessario, previa ricerca anagrafica, informa la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata.
I giudici di legittimità, pronunciando su un ricorso in tema di appropriazione indebita aggravata – reato divenuto perseguibile a querela ex art. 10 del d.lgs. n. 36 del 2018 – hanno affermato che la procedura di cui all’art. 12 comma 2 non deve essere attivata nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, essendo irrilevante che la stessa non abbia poi presentato le proprie conclusioni, ed il reato sia stato comunque già dichiarato prescritto nel giudizio di merito.
Sul momento consumativo della truffa nel caso di cessione a terzi di un immobile oggetto di contratto preliminare
Cassazione Penale, Sez. II, 23 maggio 2018 (ud. 9 maggio 2018), n. 23080
Presidente Gallo, Relatore Rago
Con la pronuncia in esame, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata sull’individuazione del momento consumativo del delitto di truffa nel caso in cui un soggetto, dopo aver stipulato un contratto preliminare relativo alla cessione di un appartamento (e aver regolarmente ricevuto gli acconti previsti nel preliminare), abbia poi venduto l’immobile ad altri.
Deve ritenersi consolidato – si legge nella sentenza – il principio secondo il quale «il delitto di truffa contrattuale è reato istantaneo e di danno, il momento della cui consumazione – che segna il “dies a quo” della prescrizione – va determinato alla luce delle peculiarità del singolo accordo, avuto riguardo alle modalità ed ai tempi delle condotte, onde individuare, in concreto, quando si è prodotto l’effettivo pregiudizio del raggirato in correlazione al conseguimento dell’ingiusto profitto da parte dell’agente».
Ai fini della consumazione del reato (e, dunque, della prescrizione), non rileva il momento in cui il profitto è stato conseguito da parte del promittente venditore (ossia con il versamento dell’ultima rata da parte del promissario acquirente), bensì il momento in cui il promittente venditore ha venduto (ad un terzo in buona fede) l’immobile promesso in vendita, essendo questo il momento in cui «la persona offesa non ha potuto più vantare alcun diritto neppure promuovendo azioni giudiziarie (art. 2932 cod. civ.), sul bene che gli era stato promesso in vendita»; è da questo momento, infatti, «che la truffa contrattuale deve ritenersi consumata in aderenza alla concezione economica del danno secondo la quale il reato si consuma nel momento in cui il raggirato perde definitivamente il bene oggetto della truffa (nella specie, l’immobile promesso in vendita)».
E’ stato così affermato il seguente principio di diritto: «nel caso di un contratto preliminare, il reato di truffa, quand’anche il promissario acquirente abbia versato l’intero prezzo pattuito, si consuma nel momento in cui il raggirato abbia perso definitivamente il bene oggetto della truffa non potendo esercitare su di esso più alcuna azione giudiziale essendo stato venduto dal promittente venditore ad un terzo in buona fede».
La rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale. Le Sezioni Unite compongono un terzo contrasto e aprono qualche spiraglio verso la certezza del diritto processuale
in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 5 – ISSN 2499-846X
Cassazione Penale, Sezioni Unite, Sentenza (ud. 21 dicembre 2017) 3 aprile 2018, n. 14800
Presidente Canzio, Relatore De Amicis, Ricorrente Troise
Come avevamo comunicato, lo scorso 3 aprile sono state depositate le motivazioni della sentenza Troise (n. 14800/2018), con la quale le Sezioni Unite hanno composto un contrasto in tema di rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale, notevolmente contribuendo a rendere stabile, si spera quanto più a lungo possibile, l’interpretazione della normativa oggi vigente.
L’auspicata stabilità pretoria offre quindi lo spunto per un breve riepilogo dei recenti sviluppi, normativi e giurisprudenziali, in merito ai casi nei quali il Giudice di seconde cure è obbligato a replicare in tutto o in parte l’istruzione svolta nel corso del giudizio di primo grado.
Da un lato, dunque, ripercorriamo le maggiori tappe raggiunte sino al sorgere del contrasto, dall’altro vediamo i dettagli di questo nuovo approdo.
1. I primi approdi delle Sezioni Unite e la riforma Orlando
Anzitutto, occorre ricordare che sino all’entrata in vigore della Legge n. 103/2017 (cd. Riforma Orlando), il codice (art. 603 c.p.p.) prevedeva tre sole ipotesi di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, una obbligatoria e due lasciate alla discrezione del Giudice: il primo caso qualora sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il dibattimento di primo grado, gli altri due casi qualora le parti chiedano la rinnovazione nell’atto di appello ed il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti, ovvero qualora il giudice ritenga la rinnovazione assolutamente necessaria.
A completamento di questo quadro normativo, la giurisprudenza europea, prima (ex multis, Corte EDU Dan c. Moldavia e Lorefice c. Italia), e nazionale, poi (Sezioni Unite n. 27620/2016, Dasgupta), in forza dell’art. 6 §3 lett. d) CEDU, che sancisce il diritto dell’accusato di “esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico”, hanno aggiunto un quarto caso di rinnovazione, il quale ricorre obbligatoriamente nel caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria, fondato sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive.
In tale ipotesi, si ritiene che il Giudice di appello non possa riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’art. 603 comma 3 c.p.p., a rinnovare l’esame dei soggetti che in primo grado avevano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenuti decisivi ai fini del giudizio assolutorio.
La regola così fatta si giustifica, secondo le Sezioni Unite, alla luce del fatto che il processo penale si conforma al canone della asimmetria dei diritti e degli oneri delle parti, nonché dei criteri che devono guidare il Giudice nella decisione. Plurimi gli elementi a conforto: da un lato, i principi di presunzione di non colpevolezza dell’imputato e di onere della prova esclusivamente in capo all’Organo di accusa (art. 27 comma 2 Cost.); dall’altro lato, il canone dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”, inserito nel comma 1 dell’art. 533 c.p.p. dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, che deve guidare il Giudice che voglia disporre e motivare la condanna dell’imputato, bastando viceversa il ragionevole dubbio per una pronuncia di proscioglimento.
Proprio dalla descritta forma asimmetrica, discende la maggior forza di una sentenza di proscioglimento, rispetto ad una di condanna. La prima infatti trae il proprio vigore tanto dalla certezza dell’innocenza, quanto dal dubbio sulla colpevolezza; la seconda invece solo dalla certezza in merito alla colpevolezza. Tale maggior forza implica la necessità di un contatto diretto(orale ed immediato) con la prova da parte di quel Giudice che sia chiamato a decidere se riformare una sentenza di proscioglimento in senso opposto; necessità che si traduce nell’obbligo di rinnovare la prova dichiarativa, solo così potendosi fugare il ragionevole dubbio manifestato dal Giudice di prime cure.
Siffatto approdo è stato successivamente tradotto in legge dalla succitata Riforma Orlando, che ha introdotto il nuovo comma 3 bisall’art. 603 c.p.p., il quale recita “nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”.
Due, quindi, le condizioni che suscitano la rinnovazione obbligatoria: (i.) una sentenza di proscioglimento in primo grado, (ii.) l’impugnazione del Pubblico Ministero per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa decisiva.
Di fronte a tale mutato quadro normativo, infine, s’è posta un’ulteriore questione, con riguardo all’ipotesi che il giudizio di primo grado si tenga nelle forme del rito abbreviato non condizionato; un’ipotesi nella quale non ha luogo alcuna istruttoria dibattimentale, ciò che aveva fatto sorgere il dubbio se fosse comunque necessario e obbligatorio disporne la rinnovazione in appello.
A fronte di pronunce discordanti sul punto, sono nuovamente intervenute le Sezioni Unite (sentenza n. 18620/2017, Patalano), chiarendo che l’obbligo di rinnovazione in appello sussiste anche nel caso in cui la sentenza di assoluzione giunga all’esito di giudizio abbreviato (sul punto, peraltro, ricordiamo che è pendente una questione di legittimità costituzionale, su cui questa Rivista, ivi).
Insomma, due sentenze del Massimo Consesso ed una riforma parlamentare parevano aver condotto ad approdi saldi in tema di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.
Un nuovo contrasto ha, invece, subito riaperto la questione.
2. Una immediata pronuncia successiva difforme: la sentenza Marchetta
La Sezione seconda, con la sentenza n. 41571/2017 (su cui questa Rivista, ivi) si è distaccata dagli orientamenti sin qui descritti, enunciando un ulteriore principio di diritto: “l’art. 603, comma 3, c.p.p. in applicazione dell’art. 6 CEDU deve essere interpretato nel senso che il giudice di appello per pronunciare sentenza di assoluzione in riforma della condanna del primo giudice deve previamente rinnovare la prova testimoniale della persona offesa, allorché, costituendo prova decisiva, intenda valutarne diversamente la attendibilità (…)”.
In buona sostanza, quest’ultima pronuncia ha inteso imporre la rinnovazione dell’istruttoria al Giudice dell’appello anche nel caso opposto a quello più sopra descritto, vale a dire quello in cui sia pronunciata condanna in primo grado e sia proposto appello dell’imputato per motivi attinenti alla prova dichiarativa. Ciò, pare di capire, dovrebbe valere solo per la rinnovazione dell’esame della persona offesa.
A sostegno di tale nuova conclusione, la Corte ha addotto un principio di simmetria del processo penale, asseritamente vigente nel nostro ordinamento, che imporrebbe la rinnovazione in ogni caso, anche solo potenziale, di overturning di una sentenza di primo grado.
Più precisamente, ad avviso della Sezione seconda, il nostro sistema processuale avrebbe disegnato la figura del Pubblico Ministero quale portatrice di una prospettiva di legalità e la pluralità dei gradi di giurisdizione quale esigenza di giustizia che tende alla “certezza” della decisione in vista del raggiungimento della verità processuale e per l’attuazione del principio di legalità. La necessità di una certezza processuale renderebbe doverosa la rinnovazione ogni volta che la certezza della decisione di primo grado sia caducata da una pronuncia in appello di segno opposto.
La conseguenza di questo ragionare è presto detta: il processo di appello, che, salve precise e poche eccezioni, ha natura meramente cartolare, si dovrebbe tramutarsi in un giudizio orale, identico a quello di prime cure, con quasi certa e notevole dilatazione dei tempi processuali.
Non solo le conseguenze si manifestavano inopportune e inadeguate, ma pure le premesse si rivelavano inconsistenti: la già citata giurisprudenza CEDU si era mostrata sin da subito chiara nel pretendere la rinnovazione solo nel caso di overturning sfavorevole, perché l’obiettivo era (ed è) quello di favorire il pieno rispetto del contraddittorio a tutela dell’imputato (e non di altre parti), proprio come prescritto dall’art. 6 §3 lett. d della Convenzione EDU. Come già visto, la giurisprudenza nazionale ed il Legislatore avevano fedelmente, e correttamente, seguito questa impostazione.
In conclusione, non v’erano ragioni, a così poca distanza da orientamenti saldi e coerenti tra loro, per nuovamente porli in discussione.
Nondimeno, questa pronuncia contrastante ha suscitato una nuova rimessione alle Sezioni Unite, chiamate a rispondere ad un nuovo quesito, così fatto: “se il giudice di appello, investito della impugnazione dell’imputato avverso la sentenza di condanna con cui si deduce la erronea valutazione della prova dichiarativa, possa pervenire alla riforma della decisione impugnata, nel senso della assoluzione, senza procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado“.
3. La composizione del contrasto. Le Sezioni Unite Troise
Come era prevedibile ed auspicabile, la risposta delle Sezioni Unite è stata nel senso di negare che sussista un obbligo di rinnovazione nel caso di condanna in primo grado ed impugnazione dell’imputato: in questo caso il Giudice è libero di sovvertire la prima decisione senza disporre una nuova audizione dei testi decisivi, salvo l’obbligo di offrire una motivazione rafforzata.
Vediamo, in rapida rassegna, gli argomenti a sostegno di tale conclusione.
a. Il processo penale italiano è asimmetrico. La Cassazione da rilievo a due principi già citati: il primo consiste nel principio di non colpevolezza, sancito dall’art. 27 comma 2 Cost., che impone alla Pubblica Accusa di provare in giudizio tutti gli elementi che fondano la responsabilità penale dell’imputato; il secondo riguarda lo standard probatorio necessario per disporre, alternativamente, la condanna o il proscioglimento dell’imputato: nel primo caso è necessaria la certezza sulla responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio, nel secondo caso è sufficiente il dubbio (sentenza, pp. 7 e 8, 13 e 14).
Contrariamente a quanto rilevato dalla pronuncia che aveva suscitato il contrasto, secondo cui il processo penale sarebbe improntato al canone della simmetria, le Sezioni Unite tornano dunque ad affermare il principio opposto, secondo cui vige invece un principio di asimmetria. Per conseguenza, da un lato generale e sistematico, non v’è alcun obbligo in capo al giudice dell’appello di rinnovare la prova in entrambi i casi di proscioglimento e condanna in primo grado: l’asimmetria permette, almeno in astratto, di trattare diversamente le due situazioni.
Vale forse la pena ricordare, per dare maggior forza a questa conclusione, che tutta la questione si fonda sulla interpretazione ed applicazione di una norma convenzionale, l’art. 6 §3 lett. d) CEDU, che per prima si mostra asimmetrica: sancisce infatti il diritto di prova orale in capo all’accusato, senza fare menzione della persona offesa o di altre parti o soggetti processuali.
b. Il principio di immediatezza non è assoluto. Come noto, il codice del processo richiede un contatto diretto tra il giudice e la prova (si vedano in proposito gli artt. 525.2 e 526.1 c.p.p.), sicché quest’ultima deve formarsi in udienza alla presenza fisica del giudice. Questo principio, ove applicato in modo stringente, imporrebbe ad ogni giudice, e dunque anche a quello di seconde cure, di disporre l’istruttoria dinanzi a se stesso. Per conseguenza, nel giudizio di appello sarebbe sempre necessario rinnovare la prova orale.
Ma la Corte precisa che esso non ha carattere assoluto, ed anzi deve ritenersi “recessivo là dove, come nel caso della riforma di una sentenza di condanna, il principio del ragionevole dubbio non venga in questione.
L’applicazione della regola dell’immediatezza nell’assunzione di prove dichiarative decisive si impone unicamente in caso di sovvertimento della sentenza assolutoria, poiché è solo tale esito decisorio che conferma la presunzione di innocenza e rafforza il peso del ragionevole dubbio – operante solo pro reo e non per le altre parti del processo – sulla valenza delle prove dichiarative. […]
Il principio di immediatezza agisce come fondamentale, ma non indispensabile, connotato del contraddittorio e non è affatto dotato di valenza costituzionale autonoma, subendo anzi svariate, e del tutto giustificate, deroghe (con riferimento, ad es., alla possibile valutazione di prove precostituite) nella disciplina processuale ordinaria. Di certo, però, esso non può essere usato per modificare le caratteristiche del giudizio di appello, trasformandone la natura sostanzialmente cartolare in quella di un novum iudicium, con l’ulteriore rischio di una irragionevole diluizione dei tempi processuali” (sentenza, pp. 9 e 10).
c. Non esistono obblighi eurounitari di rinnovazione. Una ipotesi obbligatoria di rinnovazione in caso di assoluzione non si trae nemmeno dalla normativa dell’Unione Europea in favore delle vittime di reato, racchiusa nella Direttiva 2012/29/UE. Infatti, “il legislatore europeo non impone agli Stati membri un obbligo generico di escussione della vittima operante anche in difetto di una specifica istanza, ma introduce, piuttosto, l’obbligo di assicurare che la stessa sia ascoltata ove ne faccia richiesta, affidando alla discrezionalità delle autorità giudiziarie nazionali la valutazione circa la necessità di procedere ad una nuova audizione. Nel nostro ordinamento soccorre al riguardo la disposizione di cui all’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., che consente al giudice d’appello di attivare i poteri officiosi disponendo una nuova audizione, ove lo ritenga «assolutamente necessario» in relazione al caso concreto” (sentenza, p. 15).
d. La lettera dell’art. 603 comma 3 bis c.p.p. non offre spazi interpretativi. Da ultimo la Corte nota che nell’introdurre la nuova ipotesi di rinnovazione “Il legislatore si è mosso in una prospettiva di sostanziale continuità rispetto al quadro di principi stabiliti dalle Sezioni Unite di questa Corte con le citate sentenze Dasgupta e Patalano, limitando l’obbligo di rinnovazione alla sola ipotesi dell’appello proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento, senza imporla quando l’epilogo decisorio oggetto del giudizio di appello sia invece una decisione di condanna. Il testo normativo così interpolato dal legislatore non offre alcuno spazio lessicale per sostenere la tesi prospettata dalla Seconda Sezione con la sentenza Marchetta”.
Così “il giudice non è affatto obbligato, nell’ipotesi qui considerata, a rinnovare l’istruzione dibattimentale, ma può riformare in senso assolutorio la decisione impugnata senza procedere ad una nuova assunzione delle dichiarazioni ritenute decisive ai fini del giudizio di condanna concluso in primo grado, purché dia in motivazione una puntuale e adeguata giustificazione delle difformi conclusioni cui è pervenuto. […]
È evidente che una diversa soluzione, imponendo praeter legem la regola della rinnovazione istruttoria anche ai fini del proscioglimento, trasformerebbe inevitabilmente l’appello in una innaturale replica del giudizio di primo grado” (sentenza, p. 17).
Omicidio stradale: alle Sezioni Unite la legge applicabile nel caso in cui, tra condotta ed evento, entri in vigore una legge più sfavorevole
Cassazione Penale, Sez. IV, 14 maggio 2018 (ud. 5 aprile 2018), n. 21286
Presidente Fumo, Relatore Pavich
In tema di omicidio stradale, si segnala l’ordinanza con cui è stata rimessa alle Sezioni Unite una questione di diritto relativa all’individuazione della legge penale applicabile nei casi in cui, tra la condotta e l’evento, intercorra un arco temporale durante il quale entri in vigore una norma penale che sanziona il medesimo reato in termini più sfavorevoli all’imputato rispetto alla norma previgente.
Nel caso di specie, la condotta che cagionava la morte della persona offesa risaliva al 20 gennaio 2016, mentre il decesso interveniva il 28 agosto 2016: nell’arco temporale intercorrente tra tali momenti, entrava in vigore la Legge 23 marzo 2016, n. 41 (“Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali, nonché disposizioni di coordinamento al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274”, pubblicata nella Gazz. Uff. 24 marzo 2016, n. 70) che introduceva nel nostro ordinamento il reato di cui all’art. 589-bis c.p.
Il tema attiene, pertanto, al rapporto intercorrente tra tempus commissi delicti e trattamento sanzionatorio, con riferimento al quale la giurisprudenza si richiama alla legge penale in vigore al momento di commissione, ovvero di consumazione del reato; secondo l’indirizzo prevalente, «per i reati di evento tale momento coincide con quello in cui l’evento si verifica, anche laddove ciò avvenga a distanza di tempo dal momento della condotta».
Tale approccio – si legge nell’ordinanza – presenta, tuttavia, «notevoli controindicazioni con riferimento a fattispecie del tipo di quella che forma oggetto del presente giudizio, in quanto una rigorosa adesione a tale impostazione implicherebbe che, anche in presenza di una condotta – nella specie istantanea, anziché “di durata” – posta in essere (oltretutto per colpa) sotto il vigore di una disciplina legislativa più favorevole in punto di trattamento sanzionatorio, trovi applicazione la legge penale in vigore al momento dell’evento, intervenuto a distanza di tempo, pur quando essa preveda per il reato de quo conseguenze sanzionatorie più severe rispetto a quelle precedentemente vigenti».
Un pur risalente indirizzo giurisprudenziale di legittimità – afferma il collegio – «era pervenuto a soluzioni opposte, che si ritiene di dover oggi condividere e riproporre, quanto meno in relazione a fattispecie come quella in esame»: ci si riferisce a quell’orientamento secondo cui, «nel caso di successione di leggi penali che regolano la stessa materia, la legge da applicare è quella vigente al momento dell’esecuzione dell’attività del reo e non già quella del momento in cui si é verificato l’evento che determina la consumazione del reato».
Sebbene il collegio abbia aderito al criterio della condotta, quanto meno con riferimento alle fattispecie come quella in esame (che é inquadrabile tra i reati colposi a forma libera), a fronte del contrasto di orientamenti giurisprudenziali, è stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione: «se, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione il trattamento sanzionatorio vigente al momento della condotta, ovvero quello vigente al momento dell’evento».
La modifica del regime di procedibilità in tema di delitti contro la persona e contro il patrimonio tra mancato esercizio della delega e profili di potenziale irragionevolezza
in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 5 – ISSN 2499-846X
Il prossimo 9 maggio entrerà in vigore il D.Lgs. n. 36 del 10 aprile 2018 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile che, in attuazione della riforma Orlando (L. 103/2017), modifica il regime di procedibilità di taluni reati.
In particolare, si introduce o estende, a seconda dei casi, la procedibilità a querela in tema di delitti contro il patrimonio (truffa; frode informatica; appropriazione indebita) purché il danno arrecato alla persona offesa non sia di rilevante gravità e di delitti contro la persona puniti con la sola pena pecuniaria o con pena detentiva (sola, congiunta o alternativa alla prima) non superiore nel massimo a quattro anni (minaccia; violazione di domicilio del pubblico ufficiale; falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di conversazioni telegrafiche o telefoniche ovvero informatiche o telematiche; sottrazione e soppressione o anche indebita rivelazione del contenuto di corrispondenza commessa da persona addetta al servizio delle poste, dei telegrafi o dei telefoni) ad eccezione del delitto di violenza privata, fatte salve le ipotesi in cui la persona offesa risulti incapace per età o infermità ovvero ricorrano aggravanti a effetto speciale o quelle di cui all’art. 339 c.p.
Stando alla disciplina transitoria, per i reati perseguibili a querela sulla base delle nuove disposizioni il termine per presentare la stessa decorre dal 9 maggio ove la persona offesa sia precedentemente venuta a conoscenza del fatto oppure, nel caso in cui già penda un procedimento, dal momento in cui con il pubblico ministero (in fase di indagini preliminari) o il giudice (a processo iniziato) la informi, se necessario anche mediante ricerca anagrafica, della facoltà di esercitare tale diritto.
Inoltre, accogliendo in extremis le osservazioni mosse dalla Commissione Giustizia del Senato, nell’ultima deliberazione del Consiglio dei Ministri dello scorso 6 aprile si è stabilito di rendere applicabile la nuova disciplina ai procedimenti pendenti in Cassazione, dapprima esclusi in evidente violazione dei principi della legga delega e con effetti per giunta sfavorevoli all’imputato.
Oltre alle difficoltà operative connesse alla predetta informativa nei confronti della persona offesa e al possibile stallo del relativo procedimento già avviato, a non convincere del tutto è la ragionevolezza del sistema di procedibilità complessivamente derivante dal provvedimento.
Da un lato, infatti, il Governo ha ritenuto di confermare la procedibilità d’ufficio per numerose ipotesi criminose pur astrattamente rientranti nei limiti della delega, frustrando non di poco gli stessi scopi deflattivi dell’intervento anche in ragione della conseguente preclusione delle cause estintive connesse alla libera manifestazione della volontà delle parti (remissione della querela ex art. 152 c.p.) o alla riparazione del danno di cui al nuovo art. 162ter c.p.
Dall’altro, le ragioni addotte per escludere dalla riforma le diverse fattispecie – per lo più consistenti nella rilevanza pubblicistica dei beni in gioco (artt. 631, 632, 633, 635, 635quinquies, 636, 639 cpv. e 639bis c.p.), nell’impossibilità di individuare la persona offesa (artt. 588, 648ter, 640quinquies e 617bis c.p.) o nella necessità di tutelarla in casi di particolare difficoltà (artt. 608, 590, 590bis e 593 c.p.) – sottendono irragionevoli disparità di trattamento in potenziale contrasto con l’art. 3 Cost.
Un esempio per tutti: viene introdotta la procedibilità a querela per la violazione di domicilio da parte del pubblico ufficialementre si conferma quella d’ufficio per ipotesi strutturalmente analoghe di stretta prossimità come quelle di arresto illegale (art. 606 c.p.), indebita limitazione della libertà personale (art. 607 c.p.) ovvero perquisizioni o ispezioni personali arbitrarie (art. 609 c.p.).
Troppo facile intravedere dietro il labile confine segnato dalla rilevanza pubblicistica dell’interesse tutelato scelte di merito, magari occasionali e tecnicamente poco ponderate, ma pur sempre a sfondo squisitamente politico.
Non è abnorme il provvedimento con cui il GIP, investito della richiesta di decreto penale di condanna, restituisca gli atti al PM per valutare la particolare tenuità del fatto
Cassazione Penale, Sezioni Unite, 9 maggio 2018 (ud. 18 gennaio 2018), n. 20569
Presidente Fumo, Relatore Boni
Con ordinanza n. 55020/2017 era stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: «se sia qualificabile come abnorme e, pertanto, ricorribile per cassazione, il provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari, non accogliendo la richiesta di emissione di decreto penale di condanna, disponga la restituzione degli atti al Pubblico ministero affinché questi valuti la possibilità di chiedere l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis cod.pen.».
Con sentenza n. 20569, depositata il 9 maggio 2018, le Sezioni Unite hanno affermato che non è abnorme, e quindi non è ricorribile per Cassazione, il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, restituisca gli atti al pubblico ministero perché valuti la possibilità di chiedere l’archiviazione del procedimento per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.
La detenzione in gabbie metalliche durante l’udienza è lesiva dei diritti fondamentali dell’imputato
in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 4 – ISSN 2499-846X
La detenzione in box di vetro di un indagato o di un imputato durante il processo costituisce una violazione dei diritti della difesa (sub specie: presunzione di innocenza, partecipazione effettiva al processo e diritto a comunicare riservatamente con il proprio difensore), ma detenere l’indagato o imputato in un box di vetro sovraffollato o in una gabbia metallica costituisce oggettivamente un trattamento inumano e degradante..
La recente decisione del Défenseur des droits francese, che ritiene la collocazione indiscriminata degli imputati in box di vetro durante le udienza a loro carico lesiva dei loro diritti fondamentali, consente di tentare qualche ragionamento in prospettiva sovranazionale su quanto accade quotidianamente nella aule giudiziarie italiane, dove i box di vetro costituiscono l’eccezione, mentre la regola paiono essere le gabbie con tanto di sbarre metalliche.
E la compatibilità dell’uso indiscriminato dei box di vetro o gabbie con i diritti fondamentali verrà analizzato sotto il punto di vista dello standard CEDU e del diritto dell’Unione europea, anche alla luce della direttiva sulla presunzione di innocenza UE/2016/343, entrata in vigore dallo scorso 1 aprile 2018, e che punta ad uniformare le legislazioni dei vari paesi membri con l’intento dichiarato di “rafforzare il diritto a un equo processo nei procedimenti penali, stabilendo norme minime comuni relative ad alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo” e di “rafforzare la fiducia degli Stati membri nei reciproci sistemi di giustizia penale e, quindi, a facilitare il riconoscimento reciproco delle decisioni in materia penale”.
AMPLIATI GLI SPAZI DELLA PROCEDIBILITÀ A QUERELA PER I REATI CHE OFFENDONO LA PERSONA E IL PATRIMONIO: VALORIZZATO (ADEGUATAMENTE) L’INTERESSE PRIVATO ALLA PUNIZIONE DEL COLPEVOLE?
D.lgs. 10 aprile 2018, n. 36
Per leggere il testo del decreto, clicca qui.
1. Il decreto legislativo n. 36 del 10 aprile del 2018[1], approvato dal Consiglio dei Ministri il 21 marzo 2018 (e nuovamente deliberato in data 6 Aprile), dà attuazione alla delega contenuta all’art. 1, comma 16, lettere a) e b) della legge 23 giugno 2017, n. 103, modificando il regime di procedibilità per taluni reati.
La versione finale del provvedimento, che si compone di tredici articoli, accoglie numerosi suggerimenti correttivi, per lo più posti sotto forma di “condizioni” nei pareri resi dalle competenti Commissioni parlamentari sul primo schema preliminare del decreto. Nel secondo passaggio consultivo del provvedimento (prescritto come obbligatorio ai sensi dell’art. 1, comma 17 della legge delega), la Commissione Giustizia del Senato – preso atto dei contenuti solo in parte emendati – esprimeva un parere non ostativo, mentre la Commissione Giustizia della Camera ometteva di renderlo nei termini previsti.
Nel testo definitivamente licenziato dal Consiglio dei Ministri sono state risolte, melius re perpensa, due rilevanti criticità (in ordine alla trasformazione del regime di procedibilità del reato di uccisione o danneggiamento di animali altrui, dapprima incluso nel provvedimento, e all’inoperatività del nuovo regime di procedibilità per i reati il cui processo fosse pendente in Cassazione); modifiche peraltro sin da subito sollecitate dalle Commissioni parlamentari, ma concesse in limine (la seconda, solo seguito dell’ulteriore esame del Consiglio dei Ministri del 6 Aprile).
Come si vedrà, l’articolato iter di emanazione del decreto ha condotto, per effetto dei progressivi interventi sui contenuti originari, ad una importante rivisitazione delle scelte iniziali del delegato e, nel complesso, ad una migliore razionalità dell’intervento, anche sul piano della coerenza agli indirizzi impressi nella legge delega.
2. La legge c.d. Orlando pone, all’art. 16, comma 1, lettere a)e b), i principi e i criteri direttivi valevoli in tema di modifica del regime di procedibilità per taluni reati.
In particolare, alla lett. a) si prevede la procedibilità a querela per i reati contro la persona – ad esclusione del delitto di violenza privata di cui all’art. art. 610 c.p.- puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni (sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria) e per i reati contro il patrimonio contemplati nel codice penale.
I predetti reati restano procedibili d’ufficio in presenza di una delle seguenti condizioni: 1) l’incapacità per età o per infermità della persona offesa del reato; 2) la ricorrenza di circostanze aggravanti ad effetto speciale o di quelle previste all’art. 339 c.p.; 3) la sussistenza, nei reati contro il patrimonio, di un danno di rilevante gravità.
Alla lettera b) della medesima disposizione si disciplinano altresì le modalità intertemporali, specificando che per i reati divenuti perseguibili a querela commessi prima della data di entrata in vigore del decreto delegato di attuazione, “il termine per presentare la querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato”; diversamente, “se è pendente il procedimento, il pubblico ministero o il giudice informa la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata”.
3. A fronte di tali puntuali coordinate di intervento, va subito osservato come il legislatore delegato abbia optato per un’attuazione parziale della delega, lasciando immutato il regime di procedibilità di numerose ipotesi – pur astrattamente ricomprese nei limiti edittali individuati ai fini della modifica della disciplina – ritenute comunque meritevoli di un’azione penale ex officio.
Si è altresì provveduto, in modo condivisibile, a estendere ai delitti contro il patrimonio il limite edittale (di quattro anni di pena detentiva), espressamente indicato per i soli delitti contro la persona, recuperando uniformità al disegno complessivo circa il livello di gravità del fatto incriminato e dunque dell’offesa, da assurgere a soglia entro la quale dar rilievo alle determinazioni del privato in ordine alla punizione del colpevole.
Le eccezioni (non poche) sono per lo più motivate in ragione della rilevanza pubblicistica (o anche pubblicistica) degli interessi lesi (come per gli artt. 631, 632, 633, co. 1, 635, 636 e 639 bis, 635 quinquies, 639, co. 2, c.p.), dell’impossibilità o maggiore difficoltà di individuare la persona offesa del reato (art. 588, 648 ter, 640 quinquies, 617 bis c.p.) o della particolare situazione soggettiva in cui versa la vittima (art. 608 c.p.; art. 590, co. 5, 590 bis,commi 1,4,5 e 6 e 593 c.p.).
La scelta minimale – di cui la Relazione illustra le ragioni[2] – si inquadra nella riconosciuta legittimità dell’esercizio frazionato del potere di delega, fondata, su di un piano generale, sull’autonomia strutturale di ogni singola previsione rispetto all’intero contesto di prescrizioni impartite al legislatore delegato. Ciò nonostante, a fronte di un così forte ridimensionamento della materia originariamente oggetto di delega, può sorgere qualche perplessità, in un un’ottica di opportunità politico-criminale, considerando il rischio di smarrire, per tale via, il progetto unitario e di sovvertirne i promossi obiettivi deflattivi.
Continua a leggere https://www.penalecontemporaneo.it/d/5997-ampliati-gli-spazi-della-procedibilita-a-querela-per-i-reati-che-offendono-la-persona-e-il-patrimon
Sezioni Unite: anche per le cose che costituiscono corpo di reato, il decreto di sequestro probatorio deve essere motivato quanto alla finalità in concreto perseguita per l’accertamento dei fatti
Cassazione Penale, Sezioni Unite, ud. 19 aprile 2018, informazione provvisoria
Presidente Canzio, Relatore Andreazza
Come avevamo anticipato, con ordinanza n. 3677/2018, era stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: «se, per le cose che costituiscono corpo di reato, il decreto di sequestro probatorio possa essere motivato con formula sintetica ove la funzione probatoria del medesimo costituisca connotato ontologico ed immanente del compendio sequestrato, di immediata evidenza, desumibile dalla peculiare natura delle cose che lo compongono o debba, invece, a pena di nullità, essere comunque sorretto da idonea motivazione in ordine al presupposto della finalità perseguita, in concreto, per l’accertamento dei fatti».
All’udienza del 19 aprile 2018, le Sezioni Unite hanno fornito risposta affermativa.
Divulgazione di materiale pedopornografico (art. 600-ter c. 3 c.p.) e utilizzo di programmi di file sharing
Cassazione Penale, Sez. III, 26 marzo 2018 (ud. 14 dicembre 2017 ), n. 14001
Presidente Di Nicola, Relatore Socci
In tema di pornografia minorile (art. 600-ter c.p.), si segnala la sentenza con cui è stato ribadito il principio di diritto secondo cui «la sussistenza del reato di cui all’art. 600-ter c.p., comma 3, deve essere esclusa nel caso di semplice utilizzazione di programmi di file sharing che comportino nella rete internet l’acquisizione e la condivisione con altri utenti dei files contenenti materiale pedopornografico, solo quando difettino ulteriori elementi indicativi della volontà dell’agente di divulgare tale materiale».
Tra gli elementi da cui poter ricavare la volontà di divulgazione da parte del soggetto agente rientrano – si legge nella sentenza – «l’esperienza dell’imputato, la durata nel tempo del possesso di materiale pedopornografico, l’entità numerica del materiale e la condotta, già illecita ex art. 600 quater c.p., connaturata da accorgimenti volti alla difficoltà di individuazione dell’attività».
Tutte queste circostanze – conclude la Corte – devono essere valutate «anche sotto il profilo dell’individuazione del dolo eventuale» in quanto «la detenzione di materiale pedopornografico, scaricato in maniera massiccia, e l’utilizzazione del programma di condivisione automatica di file sharing comporta il concreto e tangibile rischio (accettato dal soggetto agente) della diffusione indiscriminata sulla rete».
Violazione degli obblighi di assistenza familiare: la contestazione del reato permanente al vaglio della Corte Costituzionale
in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 4 – ISSN 2499-846X
Corte costituzionale, Sentenza 7 febbraio – 8 marzo 2018, n. 53
Presidente Lattanzi, Relatore Modugno
1. Con ordinanza del 9 novembre 2016, il Tribunale ordinario di Chieti, sezione distaccata di Ortona, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 671 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione. Di recente, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 53/2018, si è pronunciata – in termini di infondatezza – sulla legittimità della norma, nella parte in cui “non prevede, in caso di pluralità di condanne intervenute per il medesimo reato permanente in relazione a distinte frazioni della condotta, il potere del [giudice dell’esecuzione] di rideterminare una pena unica, in applicazione degli artt. 132 e 133 c.p., che tenga conto dell’intero fatto storico accertato nelle plurime sentenze irrevocabili, e di assumere le determinazioni conseguenti in tema di concessione o revoca della sospensione condizionale, ai sensi degli artt. 163 e 164 c.p.”.
2. Giova premettere che la vicenda ha occasionato il giudice dell’esecuzione per via dell’istanza presentata dal difensore di un soggetto, destinatario di tre condanne definitive, in ordine al medesimo reato di cui all’art. 570, secondo comma, del codice penale.
Com’è noto, l’illecito in parola postula la violazione degli obblighi di assistenza familiare, segnatamente consumata a danno di figli minorenni privati dei mezzi di sussistenza.
Le condotte oggetto di contestazione riguardano fatti ascrivibili a segmenti temporali ben circoscritti e distinti tra loro, ragion per cui vengono instaurati più procedimenti penali.
Sennonché, vista la natura permanente del reato e l’unicità del fatto storico cui fanno riferimento le condanne, il difensore avanzava la predetta istanza chiedendo, in via principale, l’esecuzione della sola prima sentenza di condanna, ai sensi degli artt. 649 e 669 c.p.p.; inoltre, in via subordinata, richiamava l’art. 671 c.p.p., norma che disciplina il reato continuato, chiedendo la rideterminazione della pena complessiva.
3. A tal punto, è opportuno analizzare nel merito l’ordinanza, con particolare riguardo ai principi costituzionalmente garantiti – vale a dire quello di uguaglianza e di inviolabilità della difesa – posti al vaglio della Consulta. Stando alle doglianze del ricorrente, la mancata valutazione unitaria delle diverse frazioni di condotta sarebbe sinonimo di una deficitaria tutela giurisdizionale, poiché ostativa ad evitare il cumulo delle pene irrogate nonché a valutare unitariamente l’offesa.
Pertanto, una scelta simile potrebbe comportare, e per cause indipendenti dal reo, non solo la revoca della sospensione condizionale della pena, ove concessa con le prime condanne, ma anche il deterioramento del trattamento sanzionatorio rispetto a quello che si otterrebbe considerando i reati avvinti dal concorso formale o dalla continuazione, ai sensi dell’art. 671 c.p.
Posta in questi termini, la questione appare viziata da un trattamento sanzionatorio irrazionale e da una tutela difensiva alquanto scarna.
4. Con riferimento al percorso ermeneutico intrapreso dalla Consulta, esso involge l’istituto del reato permanente – figura solo richiamata, ma non definita né dal codice penale né dal codice di procedura penale. Le esigenze di carattere sostanziale sottese al ragionamento svolto vanno connesse a quelle di carattere processuale che spesso conducono, in sede cognitiva, a plurime decisioni per frazioni di condotta sussumibili nel medesimo reato permanente.
Preliminarmente, giova introdurre alcune delle peculiarità del reato permanente: in primo luogo, esso si caratterizza per la durata dell’offesa arrecata al bene giuridico che, diversamente da quanto accade nel reato istantaneo, si protrae nel tempo in concomitanza con la condotta volontaria del reo e si esaurisce con la cessazione di quest’ultima in secondo luogo, esso si contraddistingue per la natura unitaria, riconosciuta dalla giurisprudenza costante in contrasto con la teoria pluralistica della dottrina, sicché una volta integrati gli elementi tipici di fattispecie con l’inizio della condotta illecita, quest’ultima soggiace alla disciplina del reato permanente qualunque sia la durata.
Ne consegue che il carattere unitario non attiene soltanto alla condotta, bensì coinvolge più ampiamente anche l’offesa e tutta la struttura del reato.
5. Come già anticipato, un fenomeno derogatorio dell’unitarietà volto al frazionamento dell’illecito si configura allorquando il reato permanente diviene destinatario di una pluralità di giudicati di condanna, per via di fattori di tipo processuale che impediscono l’esercizio unitario dell’azione penale.
Si pensi, ad esempio, all’acquisizione graduale di prove da parte del pubblico ministero, circostanza che impedirebbe l’instaurarsi di un unico procedimento penale a carico del medesimo imputato.
Invero, la vicenda oggetto del giudizio a quo corrisponde a questa occasionale circostanza ove la presentazione di plurime denunce da parte del coniuge separato a carico del ricorrente, per avere inadempiuto agli obblighi di assistenza familiare in modo continuativo, faceva insorgere tre distinti procedimenti penali quante le singole condotte contestategli.
Ciò in quanto vi è difetto di corrispondenza tra dato storico e naturalistico per ciascun elemento costitutivo del reato: ad esempio, le condotte appaiono dissociate sul piano storico. Dunque, è pacifico come una simile circostanza osti al principio del ne bis in idem che, viceversa, eleva a condizione di applicabilità la corrispondenza storico-naturalistica di ciascun elemento del reato.
6. Auspicando che rafforzi l’argomentazione, occorre altresì dar luogo alle modalità di formulazione dell’imputazione fatta dal pubblico ministero. Di solito essa può rilevare come contestazione “chiusa” ovvero “aperta”, a seconda delle risultanze investigative compiute.
La contestazione “chiusa” consiste nella cristallizzazione del capo di imputazione in un lasso temporale ben definito, avente data iniziale e finale espresse, con la conseguenza logica che le ulteriori manifestazioni di condotta non possono né essere automaticamente assorbite nel capo d’imputazione già formulato- salvo ipotesi di contestazione suppletiva ex art. 516 c.p.p. – né tantomeno sfuggire all’azione penale.
Diversamente si sostiene in tema di contestazione “aperta”, in quanto il pubblico ministero, in tal caso, si limita ad indicare la data iniziale della permanenza ovvero dell’accertamento della stessa, tralasciando la data finale evidentemente perché la permanenza non può dirsi ancora cessata.
La giurisprudenza prevalente è ferma nel ritenere che, solo in tale ultima circostanza, le ulteriori manifestazioni di condotta vadano ricomprese nella contestazione aperta, escludendo la necessità di quelle suppletive.
In ogni caso, qualunque sia la tipologia di contestazione adottata dal pubblico ministero, va rammentato che la pronuncia della sentenza di primo grado comporta la preclusione di ulteriori accertamenti e neutralizza il rischio di un doppio giudizio per condotte già contestate.
7. Le conclusioni giurisprudenziali finora riportate sottolineano l’esigenza di non creare una zona franca per delle condotte penalmente rilevanti che, in caso contrario, sfuggirebbero alla minaccia della pena per meri vizi di carattere pratico. Non solo ma un tale meccanismo contraddirebbe la funzione deterrente della pena e indurrebbe ad una libera violazione della legge penale. Ciò lo si evince proprio dalla sentenza della Corte Costituzionale che, in merito alla possibilità di procedere per la condotta successiva alla data finale della contestazione “chiusa” ed anteriore alla pronuncia di primo grado, reputa «egualmente illogico che il reo possa godere di una “franchigia penale” riguardo alla perdurante condotta illecita per il mero fatto che l’accertamento giudiziario abbia riguardato solo un segmento temporale del reato».
Alla luce di quanto detto, deve escludersi la sovrapposizione dei giudicati e di conseguenza la violazione del principio del ne bis in idemvisto che le sentenze di condanna in ordine al reato di cui all’art. 570 comma 2 c.p. fanno riferimento a periodi diversi e cristallizzati in contestazioni di tipo “chiuso” (rispettivamente, da marzo a settembre 2008, da ottobre 2008 a marzo 2009 e da agosto 2009 a marzo 2010).
8. Oltre a quanto detto, merita cenno anche il secondo dei due motivi rilevati in seno all’ordinanza di legittimità costituzionale. In particolare, si discute circa l’applicabilità dell’art. 671 c.p.p., disposizione in forza della quale, in caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili oggetto di procedimenti distinti a carico del medesimo imputato, il giudice dell’esecuzione può applicare, ove non escluso in sede cognitiva, la disciplina del reato continuato.
Com’è noto, l’istituto della continuazione postula che la base propositiva dei vari reati commessi sia un medesimo disegno criminoso, tuttavia negato dal ricorrente in favore di un unico reato permanente.
Dapprima viene richiamato l’indirizzo giurisprudenziale, ormai consolidato, secondo cui la permanenza subisce un’interruzione giudiziale per cause naturalistiche- ossia l’esaurirsi della condotta tipica- nonché per cause giudiziarie- ossia l’acquisizione graduale di prove. Successivamente, il richiamo del fenomeno di interruzione giudiziale della permanenza, adoperato dal ricorrente, costituisce la prova contraria per negare la configurabilità nel caso specie; a sostegno della tesi, il fatto che la sentenza di condanna è posteriore alla terza ed ultima condotta giudicata con le tre pronunce, di guisa che l’unitarietà non viene intaccata.
Sul punto va doverosamente sottolineato che il ricorrente tralascia un aspetto determinante, chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale la sentenza di primo grado non assurge ad indistinto fattore di interruzione giudiziale, bensì si riferisce solo a quelle contestazioni “aperte”. Al contrario, la Corte di cassazione è ferma nel ritenere che per quanto attiene alle contestazioni “chiuse”, l’interruzione della permanenza coincide con la data finale indicata nel capo di imputazione, e conseguentemente causa la frantumazione della condotta.
Così ricostruito il quadro d’insieme con lo scopo di chiarire l’avvenuta interruzione della permanenza, contrariamente a quanto opina il giudice a quo, può dirsi del tutto applicabile la disciplina del reato continuato anche in sede esecutiva. (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 12 luglio-13 settembre 2011, n. 33838; sezione prima penale, sentenza 19 maggio-25 ottobre 2011, n. 38486; sezione prima penale, sentenza 3 marzo-8 aprile 2009, n. 15133; sezione prima penale, sentenza 17 novembre-20 dicembre 2005, n. 46576).
D’altronde, la Consulta afferma che «l’identità del disegno criminoso, richiesta dall’art. 81, secondo comma, c.p. al fine di cementare i vari fatti di reato, è facilmente riscontrabile nella determinazione volitiva che sorregge le singole porzioni temporali di una condotta antigiuridica omogenea, dipanatasi nel tempo senza soluzione di continuità, quale quella integrativa del reato permanente.»
9. Concludendo, la vicenda in parola si risolve in termini di infondatezza rispetto alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 671 del codice di procedura penale sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Chieti, sezione distaccata di Ortona, con l’ordinanza del 9 novembre 2016.
Rapina al portavalori di Vigilanza Aquila: il processo è da rifare
Tutto da rifare. Colpo di scena nella vicenda giudiziaria sulla rapina al furgone portavalori della società Aquila sulla A14. Ieri sera la Corte di Cassazione ha annullato le precedenti sentenze a carico di tre componenti il commando armato e due basisti : Leonardo Caputo, Vincenzo Sciusco, Antonio Patruno, Simone Di Gregorio eCono Surace.
La rapina avvenne nel dicembre 2012. In primo grado Vincenzo Sciusco era stato condannato a 14 anni di reclusione e Leonardo Caputo a 12 anni. i cinque saranno giudicati in un nuovo processo che si terrà davanti alla Corte d’appello di Perugia. La decisione della Cassazione sarebbe scaturita da irregolarità nei referti delle tracce ematiche.
Grande la soddisfazione dei legali: l’avvocato Antonello Cerella per Surace, , il collega Antonio Valentini per Di Gregorio e l’avvocato Rosario Marino per Patruno.
Enorme il clamore per una sentenza che coglie tutti di sorpresa e arriva dopo 6 anni dalla rapina. Caputo e Sciusco furono arrestati nel giugno 2014 a Cerignola, grazie alle tracce di Dna trovate sui passamontagna utilizzati ( e su queste tracce pare ci siano errori tecnici ma è ancora tutto da chiarire) e abbandonati in un’auto usata per la rapina. Il processo era stato celebrato a porte chiuse con rito abbreviato, come richiesto dai difensori degli imputati. I due avevano beneficiato della riduzione di un terzo della pena. Patruno , giudicato con rito ordinario aveva una condanna di 18 anni. Per i due basisti di San Salvo nel dicembre 2016 in appello le pene erano state ridotte rispettivamente da 14 a 12 e 10 anni di carcere.
La rapina avvenne nel dicembre 2012. Una parte del gruppo armato, a bordo di tre auto, esplose decine di colpi di kalashnikov contro il blindato, costringendo i tre vigilantes a fermare il mezzo e a sdraiarsi per terra. Altri complici bloccarono un’auto in transito facendosi consegnare le chiavi dal conducente. Due componenti il commando salirono sul tettuccio del furgone e con un paio di cesoie da carrozziere praticarono un foro per entrare nel caveau e prelevare le sacche con 600 mila euro. Dopo il colpo abbandonarono e incendiarono le auto, cospargendo la sede stradale di chiodi e fuggirono a piedi fino alla strada provinciale 181. Qui fermarono due automobilisti e li derubarono dei loro mezzi abbandonandoli poi San Salvo. In via San Giuseppe a San Salvo, furono lasciati in un garage 50mila euro. Secondo la Procura fu la ricompensa per chi fornì loro il punto d’appoggio, e la fuga su un furgone fino a Montefalcone del Sannio (Campobasso), dove una volta intercettati abbandonarono parte del bottino, due fucili a pompa, un kalashnikov e diversi passamontagna.
Paola Calvano (Il Centro)
La decisione della Corte Costituzionale: inapplicabile la “regola Taricco” sulla prescrizione
Come avevamo anticipato, era prevista per il 10 aprile l’udienza davanti alla Corte Costituzionale nella vicenda Taricco relativa, come è noto, all’obbligo per il giudice, in applicazione dell’articolo 325 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE) – come interpretato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza 8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco – di disapplicare gli articoli 160, terzo comma, e 161, secondo comma, del codice penale, «allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA».
La Corte di Appello di Milano e la Corte di Cassazione avevano, infatti, sollevato, con riferimento agli articoli 3, 11, 24, 25, comma secondo, 27, comma terzo, e 101, comma secondo, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, la quale ordina l’esecuzione nell’ordinamento italiano del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE) nella parte in cui impone di applicare la disposizione di cui all’art. 325 §§ 1 e 2 TFUE da cui – nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia nella (prima) sentenza Taricco – discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160 ultimo comma e 161 secondo comma c.p., relativi agli effetti dell’interruzione della prescrizione.
La decisione della Consulta tiene conto, ovviamente, della sentenza della Grande Sezione della CGUE del 5 dicembre 2017 (c.d. Taricco-bis) pronunciata a seguito del rinvio pregiudiziale, disposto con ordinanza n. 24 del 2017, per l’interpretazione dell’articolo 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Riportiamo di seguito il testo del comunicato reso noto dalla Corte Costituzionale:
«I giudici non sono tenuti ad applicare la “regola Taricco” sul calcolo della prescrizione, stabilita dalla Corte di Giustizia Ue con la sentenza dell’8 settembre 2015 per i reati in materia di Iva. Pertanto, anche per questi reati, rimangono applicabili gli articoli 160, ultimo comma, e 161 del Codice penale.
La Corte costituzionale, riunita oggi in camera di consiglio, ha infatti dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2 della legge di autorizzazione alla ratifica del Trattato di Lisbona (n. 130/2008), là dove dà esecuzione all’articolo 325 del Trattato sul funzionamento dell’Ue (TFUE) come interpretato dalla Corte di Giustizia con la “sentenza Taricco”.
Le questioni erano state sollevate dalla Cassazione e dalla Corte d’appello di Milano sul presupposto che la “regola Taricco” fosse senz’altro applicabile nei giudizi in corso, in contrasto con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale, in particolare con il principio di legalità in materia penale (articolo 25 della Costituzione).
Secondo i giudici costituzionali, però, questo presupposto è caduto con la sentenza “Taricco bis” del 5 dicembre 2017, in base alla quale l’articolo 325 TFUE (come interpretato dalla Corte di Giustizia nel 2015) non è applicabile né ai fatti anteriori all’8 settembre 2015 (e dunque nei giudizi a quibus) né quando il giudice nazionale ravvisi un contrasto con il principio di legalità in materia penale».
Depositate le motivazioni della Cassazione nei confronti di Pier Paolo Brega Massone
Cassazione Penale, Sez. I, 3 aprile 2018 (ud. 22 giugno 2017), n. 14776
Presidente Novik, Relatore Sandrini
Pubblichiamo, in considerazione dell’interesse mediatico della vicenda, le motivazioni della sentenza di annullamento con rinvio pronunciata dalla prima sezione penale della Corte di Cassazione nei confronti di Pier Paolo Brega Massone, ex primario della Clinica Santa Rita di Milano.
In punto di diritto – nell’attesa di ospitare su questa rivista un contributo più approfondito nelle prossime settimane – la Cassazione ha affrontato il tema del rapporto tra dolo omicidiario (ai fini di una affermazione della responsabilità penale per il delitto di cui all’art. 575 c.p.) e omicidio preterintenzionale ex art. 584 c.p. ricordando come costituisca «ius receptum nell’elaborazione giurisprudenziale che l’elemento psicologico dell’omicidio preterintenzionale consiste nell’aver voluto, con dolo, l’evento minore rappresentato dalle lesioni cagionate alla persona offesa, e non anche l’evento più grave (la morte della vittima), che costituisce solo la conseguenza diretta, sul piano causale, della condotta dell’agente».
Con specifico riferimento al dolo omicidiario ex art. 575 c.p., l’accertata sussistenza del dolo di lesioni personali conseguente alla mancanza di giustificazione medico-chirurgica degli interventi – si legge nella sentenza – «se è destinata ad assumere ex se rilevanza decisiva agli effetti dell’integrazione del delitto di cui all’art. 584 c.p., non può tuttavia comportare alcuna attenuazione dell’onere della prova, gravante sull’accusa, sul punto relativo alla sussistenza dell’ulteriore elemento psicologico rappresentato dal dolo omicidiario, necessario a connotare il più grave titolo di reato che è stato ascritto ex art. 575 c.p. agli imputati, che esige la rigorosa dimostrazione, per ciascun singolo caso, che il medico-chirurgo si sia rappresentato e abbia voluto, o quantomeno accettato coi caratteri richiesti dalla figura del dolo eventuale, l’evento mortale come conseguenza della propria azione e condotta operatoria».
Pertanto – osserva il collegio – non è consentito attribuire «dirimente capacità dimostrativa, agli effetti della prova del dolo eventuale di omicidio, ai medesimi elementi di natura indiziaria che – se sono stati correttamente utilizzati e valorizzati sul piano della prova della irriconducibilità della condotta degli imputati a un esercizio lecito dell’attività medico-chirurgica, e della conseguente affermazione della natura dolosa della lesione dell’integrità fisica dei pazienti cagionata da interventi operatori privi di ogni legittimazione – non possono invece valere di per sé a integrare la prova (anche) della sussistenza dell’elemento psicologico, diverso e ulteriore, del più grave delitto di cui all’art. 575 c.p.».
Oltre alla necessità di un «autonomo vaglio critico volto a ricostruire l’iter decisionale dell’agente e il correlativo atteggiamento psichico nei riguardi dell’evento più grave concretamente verificatosi (la morte del paziente)», non possono essere ignorati «altri elementi indicatori, di potenziale segno contrario ed emersi dalle risultanze istruttorie», sulla base dei criteri di valutazione tipici della prova indiziaria secondo cui «al vaglio di ciascun elemento, singolarmente considerato, funzionale a verificarne la certezza e l’intrinseca capacità dimostrativa, deve far seguito un apprezzamento globale del quadro indiziario complessivo, unitariamente considerato, inteso ad accertare se le ambiguità residuate nei singoli elementi che lo compongono possano risolversi in un risultato probatorio munito di un alto grado di credibilità razionale».
Neanche – conclude la sentenza – è consentito al giudice attribuire «valenza indiziante del dolo di omicidio a condotte post factum degli imputati – come quelle consistite nella mancata richiesta dell’esame autoptico dei pazienti deceduti a seguito dell’intervento chirurgico o nell’omessa indicazione nelle schede di morte da essi redatte della possibile incidenza causale dell’intervento stesso nell’esito letale – senza confrontarsi criticamente con la possibile insorgenza dell’elemento psichico che ha animato tali condotte soltanto in un momento successivo alla verificazione dell’evento (morte), in funzione di un interesse sopravvenuto a elidere o ridurre il rischio di accertamento di una propria responsabilità, non necessariamente riconducibile a un atteggiamento volitivo di natura dolosa preesistente all’intervento operatorio».
Alla luce di tali principi, la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza impugnata limitatamente al dolo di omicidio e alla qualificazione giuridica dei reati, rinviando per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Milano.
Sull’applicabilità della aggravante della minorata difesa al furto commesso in ora notturna
Cassazione Penale, Sez. IV, 5 aprile 2018 (ud. 6 marzo 2018), n. 15214
Presidente Blaiotta, Relatore Serrao
Si segnala la sentenza con cui la quarta sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata sull’applicabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 5 c.p. (l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa) al furto commesso in ora notturna.
Secondo un primo minoritario orientamento – si legge nella decisione – la commissione di un furto in ora notturna integra di per sé gli estremi dell’aggravante della minorata difesa, «sia per la ridotta vigilanza pubblica che in quelle ore viene esercitata sulle pubbliche vie e per la minore possibilità della presenza di testimoni, sia per la mancanza della ordinaria vigilanza da parte del proprietario, elementi che comportano una minorazione delle difese del soggetto passivo».
Secondo un altro indirizzo, la circostanza che il furto sia avvenuto di notte può avere rilievo solo qualora concorrano ulteriori condizioni che abbiano effettivamente annullato o sminuito i poteri di difesa pubblica o privata, in quanto «il fondamento dell’aggravante risiede nel maggior disvalore della condotta laddove l’agente approfitti, attraverso un meditato calcolo, delle possibilità di facilitazione dell’azione delittuosa offerte dal particolare contesto in cui l’azione verrà a svolgersi». Secondo questo orientamento, dunque, la valutazione sulla sussistenza dell’aggravante deve essere operata dal giudice, caso per caso, valorizzando situazioni che abbiano ridotto o comunque ostacolato la difesa del soggetto passivo, «essendo necessario accertare in concreto, piuttosto che sulla base di una condizione astrattamente considerata, se le circostanze in cui si è verificato il fatto abbiano effettivamente favorito la commissione del reato».
Con la sentenza in esame, la Corte ha aderito al secondo orientamento evidenziando la necessità di garantire una più sicura rispondenza della aggravante al principio di offensività, dal momento che «all’interprete delle norme penali spetta il compito di renderle applicabili ai soli fatti concretamente offensivi».
In tale ottica – aggiunge la Corte – «solo un accertamento in concreto, caso per caso, delle condizioni che consentano, attraverso una complessiva valutazione, di ritenere effettivamente realizzata una diminuita capacità di difesa sia pubblica che privata è idoneo ad assicurare la coerenza dell’applicazione della circostanza aggravante con il suo fondamento giustificativo, ossia con il maggior disvalore della condotta derivante dall’approfittamento delle possibilità di facilitazione dell’azione delittuosa offerte dal particolare contesto in cui l’azione verrà a svolgersi».
La Corte di Cassazione alle prese con il giudizio di pericolosità sociale ex art. 679 c.p.p.: tra esito positivo dell’affidamento in prova e denuncia di commissione di nuovi reati.
Cassazione Penale, sez. I, 30 ottobre 2017 (ud. 19 ottobre 2017), n. 49794
Presidente Carcano, Relatore Vannucci
La sentenza in commento, che appare sostanzialmente condivisibile, affronta il caso della conclusione positiva dell’affidamento in prova al servizio sociale e dell’applicazione della misura di sicurezza personale della libertà vigilata analizzando la rilevanza, nel giudizio di pericolosità sociale, della sopravvenuta denuncia di commissione di nuovi reati.
In specie, la Corte di Cassazione impone alla magistratura di sorveglianza un accertamento incidentale volto a vagliare l’esistenza e la gravità del reato denunciato e la sua valenza in termini di pericolosità sociale; pone, tuttavia, una precisa preclusione processuale ove il fatto di reato denunciato sia già stato escluso da altro magistrato di sorveglianza quale indice di pericolosità sociale.
Il commento auspica un intervento del legislatore delegato con L. 23 giugno 2017, n. 123 che stabilisca i contorni del giudizio di accertamento dell’esito della prova onde poter rendere automatica, in caso di esito positivo, anche l’estinzione della misura di sicurezza disposta in sede di giudizio di cognizione.
Prescrizione e reati lesivi degli interessi finanziari dell’UE: il 10 aprile l’udienza in Corte Costituzionale sulla vicenda Taricco.
E’ prevista per il 10 aprile 2018 l’udienza davanti alla Corte Costituzionale nella vicenda Taricco relativa, come è noto, all’obbligo per il giudice, in applicazione dell’articolo 325 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE) – come interpretato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza 8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco – di disapplicare gli articoli 160, terzo comma, e 161, secondo comma, del codice penale, «allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA».
Come già anticipato su questa Rivista, la Corte di Appello di Milano e la Corte di Cassazione hanno sollevato, con riferimento agli articoli 3, 11, 24, 25, comma secondo, 27, comma terzo, e 101, comma secondo, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, la quale ordina l’esecuzione nell’ordinamento italiano del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
Tale disposizione, in particolare, è stata censurata nella parte in cui impone di applicare la disposizione di cui all’art. 325 §§ 1 e 2 TFUE dalla quale – nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia nella (prima) sentenza Taricco – discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160 ultimo comma e 161 secondo comma c.p., relativi agli effetti dell’interruzione della prescrizione, laddove tali effetti impediscano l’accertamento dei fatti in un numero considerevole di casi di gravi frodi in materia di IVA, anche se dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato a causa del prolungamento del termine di prescrizione.
Naturalmente, la Corte Costituzionale dovrà ora esaminare tali questioni alla luce della sentenza della Grande Sezione della CGUE del 5 dicembre 2017 (c.d. Taricco-bis) a seguito del rinvio pregiudiziale, disposto con ordinanza n. 24 del 2017, per l’interpretazione dell’articolo 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Su quest’ultima decisione, rinviamo all’articolo di A. Massaro, Taricco 2 – Il ritorno (sui propri passi?). I controlimiti come questione che “spetta ai giudici nazionali”: cambiano i protagonisti, ma la saga continua, in questa Rivista, 2017, 12.
“Multopoli”, azzerato il processo: gli atti tornano alla Procura distrettuale
Accolta l’eccezione di nullità presentata dalla difesa. Rischio prescrizione
Il processo Multopoli deve ricominciare dall’inizio. Lo ha stabilità il Tribunale di Vasto, accogliendo l’eccezione di nullità presentata dagli avvocati delle otto persone finite nell’inchiesta coordinata dalla Procura distrettuale dell’Aquila che, nell’estate 2013, fece scattare il blitz dei finanzieri di Chieti nel Comando dei vigili urbani di piazza San Vitale.
Da quell’indagine è scaturito il processo, iniziato il 6 dicembre 2016, a carico dell’ex comandante della Polizia Municipale di San Salvo, di altri agenti della Polizia Municipale, di un dipendente comunale e di un’investigatrice privata.
Nel mirino degli inquirenti la gestione delle contravvenzioni nel periodo compreso tra il 2008 ed il 2011. L’accusa ipotizzava l’associazione a delinquere finalizzata a commettere una lunga serie di reati.
Il colpo di scena è arrivato nel corso dell’udienza del 26 marzo u.s.
In aula, dinanzi al Tribunale Collegiale di Vasto, a seguito della richiesta avanzata dalla Procura di acquisire agli atti una serie di documenti tra cui numerosi verbali oggetto di contestazione, le difese, rappresentate dagli avvocati Giovanni e Antonino Cerella, Fiorenzo Cieri, Alessandra Cappa, Augusto La Morgia, Clementina De Virgiliis, Giovanni Di Santo, Guido Torricella e Marco Rinaldi, hanno sollevato un’eccezione di nullità dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari poiché emesso senza che i predetti documenti fossero stati tempestivamente depositati.
Dopo oltre tre ore e mezza di camera di consiglio, il Collegio, composto dal Presidente Dr. Bruno Giangiacomo, dalla Dr.ssa Izzi e dalla Dr.ssa Iannetta, ha accolto l’eccezione dei difensori dichiarando la nullità dell’avviso ex art. 415 bis C.P.P. e degli atti ad esso conseguenti e disponendo la trasmissione del processo al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale de L’Aquila per la rinnovazione degli atti nulli.
Per scaricare l’ordinanza:
Soggetti affetti da grave infermità psichica: sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 47 ter comma 1 ter O.P.
Cassazione Penale, Sez. I, Ordinanza, 22 marzo 2018 (ud. 23 novembre 2017), n. 13382
Presidente Bonito, Reatore Magi
Con l’ordinanza in allegato, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 2, 3, 27, 32 e 117 della Costituzione, dell’art. 47 ter comma 1 ter della legge 26.07.1975 n. 354 e succ. mod., nella parte in cui detta previsione di legge non prevede la applicazione della detenzione domicilare anche nelle ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena.
Continuazione tra reati sottoposti in parte al giudizio abbreviato in parte al giudizio ordinario ed applicazione della riduzione della pena
in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 3 – ISSN 2499-846X
Cassazione Penale, Sezioni Unite, ud. 22 febbraio 2018 (informazione provvisoria)
Presidente Di Tomassi, Relatore Rocchi, Ricorrente Cesarano
Il dubbio interpretativo nasce dalla problematica inerente i rapporti tra reati posti in continuazione tra procedimenti sviluppati con il giudizio abbreviato con la sua diminuente di pena premiale ed altri reati satelliti giudicati con il giudizio ordinario e se tale sconto premiale sia possibile applicarlo alla pena determinata in totale.
Un primo orientamento ritiene che l’applicazione in sede esecutiva della continuazione tra reati giudicati con rito ordinario e altri con rito abbreviato comporta che solo a questi ultimi, anche se integranti la violazione più grave da porre, quindi, a base del calcolo, possa essere applicata la riduzione di un terzo della pena a norma dell’art. 442, comma secondo, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 17890 del 14/02/2017, Zagaria; Sez. 1, n. 3764 del 21/10/2015, dep. 2016, Napolano; Sez. 5, n. 47073 del 20/06/2014, Esposito; Sez. 5, n. 26593 del 29/04/2014, Rinzivillo; Sez. 6, n. 33856 del 09/07/2008, P.G. in proc. Capogrosso; Sez. 1, n. 43024 del 25/09/2003, Carvelli).
A questo orientamento se ne contrappone un altro che ritiene la validità, sia in fase di esecuzione che in fase di cognizione, dell’esegesi sopra illustrata solo quando il reato più grave sia stato giudicato con rito ordinario e siano i reati satellite ad essere stati oggetto di giudizio abbreviato; in questo caso, la diminuzione per il rito andrà effettuata sulle sole pene computate in aumento su quella base (Sez. 5, n. 12592 del 28/11/2016, dep. 2017, Alma e altri; Sez. 5, n. 20113 del 27/11/2015, dep. 2016, Moreo; Sez. 3, n. 37848 del 19/05/2015, Cutuli e altri).
Mentre, nel caso in cui il reato più grave sia stato giudicato con il rito abbreviato la diminuzione per il rito speciale andrà effettuata sempre sulla pena determinata all’esito degli aumenti per tutti i reati satellite, prescindendo dal fatto che le sentenze che li hanno accertati siano state emesse con rito ordinario o abbreviato. Questa interpretazione parte dal principio di diritto generale già affermato in due sentenze del massimo consesso della Suprema Corte prima nel 1986 (Sez. Un. N. 7682/1986) e poi nel 2007 (Sez. Un. N. 45583/2007) in relazione al cumulo materiale e l’art. 78 c.p. dove una volta riconosciuta la continuazione nell’ambito del rito premiale si debba operare la diminuente attraverso un’operazione di calcolo con l’abbattimento fisso della pena. Infatti, la diminuzione per il rito abbreviato è operazione commisurativa, giusto il dettato degli artt. 442, comma 2, e 533, comma 2, cod. proc. pen., che si colloca a valle delle altre, ivi compresa di quella ex art. 81, comma 2, cod. pen.
Ulteriore aspetto in relazione al reato continuato, che appare utile per la questione de quo, è stato affrontato dalle Sezioni Unite con sent. n. 6296/2016, dove viene definita l’ampiezza dei poteri cognitivi eccezionalmente attribuiti al giudice dell’esecuzione: “il giudice dell’esecuzione, in sede di applicazione della disciplina del reato continuato, non può quantificare gli aumenti di pena per i reati-satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna”.
La questione giuridica è molto complessa e con riflessi sul piano sanzionatorio concreto di notevole rilievo, perché la pena finale a secondo del calcolo effettuato sulla base interpretativa più o meno restrittiva può arrivare ad una differenza di 10 anni.
Il caso da cui è scaturita la questione interpretativa parte dalla richiesta della difesa dell’imputato alla Corte di Appello di Napoli per il ricalcolo della pena in concreto tenendo in considerazione l’esistenza del vincolo della continuazione tra i reati addebitati nel processo in questione e quelli precedenti giudicati e definiti con pronunce irrevocabili. Le contestazioni erano di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e detenzione e porto di arma comune da sparo con l’aggravante dello stampo mafioso delle condotte.
Il quesito posto nell’ordinanza di remissione, Cass. Pen. Sez. V, ord. 7 dicembre 2017 (dep. 13 dicembre 2017), n. 55745, Pres. Vessichelli, Rel. Borrelli, Ric. Cesarano, è chiaro e la soluzione interpretativa avrà effetti molto significativi per coloro i quali sono dei giuristi pratici.
Il quesito:
Se l’applicazione della continuazione tra reati giudicati con rito ordinario ed altri giudicati con rito abbreviato comporti che soltanto a questi ultimi – siano essi reati satellite o violazione più grave – debba essere applicata la riduzione di un terzo della pena a norma dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen.
Il 22 febbraio è uscita l’informazione provvisoria del Supremo consesso: le Sezioni unite della Cassazione penale, chiamate a pronunciarsi sulla questione controversa, hanno dato risposta affermativa al quesito sopra riportato.
La Corte di Giustizia UE deposita tre sentenze in tema di doppio binario sanzionatorio. L’approdo definitivo del Giudice europeo?
in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 3 – ISSN 2499-846X
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 20 marzo 2018,
Cause C-524/15, C-537/16, C-596/16 e C-597/16
Pubblichiamo, riservandoci da subito un più ampio commento, le tre sentenze della Grande Sezione della Corte di Giustizia UE, depositate all’esito di altrettanti procedimenti per rinvii pregiudiziali ex art. 267 TFUE, sollevati da alcuni Giudici italiani in merito alla compatibilità del sistema di doppio binario rituale e sanzionatorio per illeciti fiscali e finanziari con il diritto dell’Unione.
Avevamo già seguito detti procedimenti, con particolare attenzione alle conclusioni formulate lo scorso 12 settembre dall’Avvocato generale della Corte di Lussemburgo, che aveva opinato per la dichiarazione di contrarietà del doppio binario al diritto a non essere giudicato e punito più volte per lo stesso fatto ai sensi dell’art. 50 della Carta dei Diritti Fondamentali UE (per le conclusioni dell’Avvocato generale, clicca qui).
Orbene, nella giornata di ieri il Giudice europeo ha finalmente reso il proprio verdetto, ridimensionando molto le argomentazioni dell’Avvocato generale.
Le sentenze, infatti, salve alcune riserve rimesse ai Giudici del rinvio, ha per lo più confermato la tenuta del sistema di duplicazione di procedimenti e sanzioni previsto dalla legge italiana.
Prima di passare in rassegna le peculiarità di ciascuna sentenza, chiariamo subito che in tutte le tre pronunce, all’atto di analizzare il sistema di duplicazione per illeciti fiscali (risultante dal combinato disposto dell’art. 13 d. lgs. 471/97 e 10ter d. lgs 74/00) e quello per illeciti finanziari (previsto dagli artt. 184-185 e 187bis-187ter del T.U.F), la Grande Sezione ha raggiunto alcuni punti fermi:
- per quanto riguarda le sanzioni amministrative comminate dalle citate norme, si tratta di misure aventi natura penale, perseguendo esse una chiara finalità repressiva e mostrando un elevato grado di severità, di qui la sussistenza di un “bis penale”;
- i fatti illeciti cui seguono sanzioni penali ed amministrative mostrano evidenti tratti di identità fra loro, di qui la sussistenza dell’”idem factum”;
- in via di prima conclusione si deve ritenere che siffatto cumulo di sanzioni e procedimenti costituisce una limitazione al diritto fondamentale garantito dall’art. 50 della Carta.
Tuttavia la Corte si spinge oltre, sino a vagliare, nei tre casi, la sussistenza di una valida giustificazione per tale limitazione.
Infatti, il successivo art. 52 §1 della Carta stabilisce che “Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”.
Vediamo dunque le argomentazioni e gli approdi raggiunti nelle tre pronunce.
1. Causa C-524/15, Luca Menci
In questo caso, al ricorrente era stata irrogata una sanzione amministrativa pari a € 84 milioni per fatti di omesso versamento dell’IVA. Successivamente, nei suoi confronti era stato avviato un procedimento penale per lo stesso fatto.
Oggetto di valutazione, dunque, è stato il doppio binario sanzionatorio in tema di reati fiscali.
Nel saggiare il rispetto delle condizioni ex art. 52, che giustificano l’acclarata limitazione del diritto in questione, la Corte ha ritenuto che la possibilità di cumulare procedimenti e sanzioni in ambito fiscale sia prevista dalla legge italiana, in modo chiaro e preciso (para 42 e 51).
In secondo luogo, tale normativa sarebbe effettivamente volta ad un obiettivo di interesse generale che giustifica il cumulo, quale è quello di assicurare la riscossione integrale dell’IVA dovuta (para 44-48). Sul punto, la Corte ha anche ravvisato come i procedimenti e sanzioni penali e amministrativi hanno scopi complementari vertenti su aspetti differenti della medesima condotta: le norme amministrative hanno lo scopo di reprimere qualsiasi inadempimento, intenzionale o meno, quelle penali invece di reprimere e dissuadere solo i comportamenti più gravi.
Sotto altro profilo, le regole de quo garantirebbero una coordinazione che limita allo stretto necessario l’onere supplementareche risulta dal cumulo di sanzioni. Da un lato, infatti, l’art. 21 d. lgs. 74/00 non si limiterebbe a prevedere la sospensione dell’esecuzione forzata delle sanzioni amministrative di natura penale nel corso del procedimento penale, ma esso osterebbe definitivamente a tale esecuzione dopo la condanna penale dell’interessato. Dall’altro lato, il pagamento volontario del debito tributario, purché riguardi parimenti la sanzione amministrativa inflitta all’interessato, costituisce una circostanza attenuante speciale di cui tenere conto nell’ambito del procedimento penale.
Entrambi i profili, chiarisce comunque la Corte, implicano una verifica in concreto da parte del Giudice del rinvio, al Giudice europeo spettando solo definire i parametri astratti entro cui la norma nazionale può essere conforme al diritto europeo.
Da ultimo, al Giudice del rinvio è rimesso anche il compito di svolgere una valutazione in merito alla proporzionalità fra il complesso delle sanzioni risultante dal doppio binario e la gravità del fatto commesso.
2. Causa C-537/16, Stefano Ricucci e altri
Questo secondo procedimento aveva invece ad oggetto la valutazione di conformità al diritto europeo del doppio binario conseguente a fatti di manipolazione di mercato. Il ricorrente, infatti, dopo essere stato raggiunto da una sentenza di applicazione su richiesta delle parti, si trovava coinvolto in un procedimento per l’applicazione di una sanzione amministrativa.
Medesime considerazioni hanno svolto i Giudici di Lussemburgo con riguardo alla chiarezza e precisione della legge che prevede il cumulo, così come il perseguimento della stessa di un interesse generale, in questo caso consistente nella tutela del mercato.
Tuttavia, ha rilevato la Corte, il fatto di proseguire un procedimento amministrativo ai sensi dell’art. 187ter eccederebbe quanto strettamente necessario per conseguire l’obiettivo di tutela del suddetto interesse generale (para 54-63).
Infatti, nel caso in cui sia stata pronunciata una condanna penale (o, come nel caso, di patteggiamento) in forza dell’articolo 185 del TUF al termine di un procedimento penale, la celebrazione di un giudizio amministrativo eccede quanto è strettamente necessario per il conseguimento dell’obiettivo di cui al punto 46 della presente sentenza, qualora tale condanna penale sia idonea a reprimere l’infrazione commessa in modo efficace, proporzionato e dissuasivo (para 57). E tale ultima circostanza dovrà essere valutata dal Giudice del rinvio.
In conclusione, all’esito di un giudizio sull’efficacia, proporzionalità e dissuasività della pronuncia penale, il Giudice amministrativo potrà ravvisare la contrarietà del doppio binario all’art. 50 della Carta.
3. Causa C-596/16 e C-597/16, Di Puma e altri
Quest’ultimo procedimento aveva invece ad oggetto condotte di cd. insider trading, previste e sanzionate, in ambito penale, dall’art. 184 T.U.F., e, in ambito amministrativo, dall’art. 187bis T.U.F.
In particolare, il ricorrente aveva ottenuto una sentenza penale di assoluzione divenuta definitiva, perché i fatti non erano sufficientemente provati, ed era al contempo sottoposto a procedimento amministrativo per lo stesso fatto.
In questo caso, il Giudice del rinvio si chiedeva se il diritto europeo (segnatamente l’art. 14, Direttiva 2003/6 e l’art. 50 Carta di Nizza) vada interpretato nel senso che una pronuncia penale assolutoria, la quale, ricordiamo, secondo la legge italiana fa stato nel giudizio amministrativo (art. 654 c.p.p.), impedisca o meno la prosecuzione del procedimento amministrativo per lo stesso fatto.
Richiamando i propri precedenti, la Corte ha ricordato che il diritto dell’Unione non impone di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscano forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale.
Pertanto, se non vi sono ostacoli all’irrogazione di una sanzione amministrativa nel caso in cui il processo penale abbia riscontrato la responsabilità dell’autore del fatto (para 34), la prosecuzione di un procedimento inteso all’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale eccederebbe manifestamente quanto necessario per conseguire l’obiettivo generale di tutela del mercato della presente sentenza, una volta che esiste una sentenza penale definitiva di assoluzione che dichiara l’assenza degli elementi costitutivi dell’infrazione (para 44). Infatti, in questo secondo caso, la prosecuzione del giudizio risulta sprovvista di qualsivoglia fondamento.
In conclusione, la conformità al diritto europeo di un giudizio amministrativo dopo che sia stato celebrato un processo penale per lo stesso fatto dipende dall’esito di quest’ultimo: in caso di assoluzione esso è conforme, diversamente non lo è.
- Scarica il Comunicato Stampa della Corte
- Scarica la Sentenza Menci
- Scarica la Sentenza Ricucci
- Scarica la Sentenza Di Puma
Come citare il contributo in una bibliografia:
L. Roccatagliata, La Corte di Giustizia UE deposita tre sentenze in tema di doppio binario sanzionatorio. L’approdo definitivo del Giudice europeo?, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 3
PROFILI DI INUTILIZZABILITÀ DELLE INTERCETTAZIONI ANCHE ALLA LUCE DELLA NUOVA DISCIPLINA
Si rinvia al link della rivista Diritto Penale Contemporaneo per prendere visione del contributo destinato al volume di T. Bene (a cura di), Le intercettazioni di comunicazioni, Cacucci Editore, in corso di pubblicazione.
SOMMARIO: 1. La disciplina della inutilizzabilità tra requisiti sostanziali e formali. – 2. I requisiti di ammissibilità inerenti le categorie dei reati. – 3. Le condizioni applicative ex art. 267 c.p.p. – 4. Le diverse metodologie. – 5. I requisiti di esecuzione. – 6. Epilogo.
https://www.penalecontemporaneo.it/upload/7681-galantini2018a.pdf
Alle Sezioni Unite una questione in tema di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina
Cassazione Penale, Sez. I, ord., 15 marzo 2018 (ud. 10 gennaio 2018), n. 11889
Presidente Bonito, Relatore Cairo
Segnaliamo l’ordinanza con cui è stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto in tema di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: «se, in tema di disciplina dell’immigrazione, le fattispecie disciplinate dall’art. 12 comma 3 D. Lgs. 25 luglio 1998 n. 286 costituiscano circostanze aggravanti del delitto di cui all’art. 12 comma 1 del medesimo D. Lgs. ovvero figure autonome. In eventualità siffatta, se il delitto di cui all’art. 12 comma 3 D. Lgs. 25 luglio 1998 n. 286 integri un reato di pericolo o “a consumazione anticipata”, che si perfeziona per il solo fatto di compiere atti diretti a procurare l’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato, in violazione della disciplina di settore, non richiedendo l’effettivo ingresso illegale dell’immigrato in detto territorio».
I confini per il legittimo esercizio della professione sanitaria di odontoiatra e i presupposti della configurabilità del reato di esercizio abusivo della medesima
Cassazione Penale, Sez. VI, 22 gennaio 2018 (ud. 9 novembre 2017), n. 2691
Presidente Carcano, Relatore Scalia
L’Autore commenta una recente pronuncia della sesta sezione penale della Corte di Cassazione, secondo cui, in tema di reati contro la Pubblica Amministrazione, commette esercizio abusivo della professione il laureato in medicina e chirurgia che, pur avendo conseguito due master specialistici all’esito di attività tecnico-pratica, esegua interventi di odontostomatologia (visite, estrazioni, otturazioni, applicazione a fissaggio di capsule ed implantologia) senza essere iscritto all’Albo, istituito con legge n. 409 del 1985, di coloro che sono abilitati all’esercizio della professione di odontoiatra.
Estinzione del reato per condotte riparatorie e “confisca senza condanna”: problemi applicativi alla luce dei più recenti approdi della giurisprudenza
Con l’entrata in vigore della legge 23 giugno 2017 n. 103 e l’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 162 ter c.p. (“Estinzione del reato per condotte riparatorie”), si pone nuovamente all’attenzione dell’interprete l’annosa questione dell’applicazione della confisca obbligatoria prevista dall’art. 240 c.p. 2° comma in caso di estinzione del reato: come è vero, infatti, che l’art. 162 ter c.p. prevede espressamente l’applicazione del 2° comma dell’art. 240 c.p., è anche vero che la causa di estinzione in questione è giuridicamente incompatibile con la condanna dell’imputato, giacché le condotte riparatorie devono intervenire entro il termine perentorio “della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado” (art. 162 ter c.p.).
La controversa relazione fra l’estinzione del reato e l’applicazione della confisca ha da sempre catturato l’attenzione degli studiosi, i quali, riconoscendo a tale istituto ciascuno una natura giuridica (ed una disciplina) diversa, inevitabilmente sono pervenuti sul punto a diverse conclusioni; i dibattiti in materia all’interno del mondo giuridico sono negli ultimi anni aumentati ulteriormente, peraltro, a causa di alcuni incisivi interventi da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che hanno stimolato attente riflessioni della dottrina ed una veemente reazione da parte della più autorevole giurisprudenza.
Per evitare equivoci, anzitutto, è bene precisare che nel nostro ordinamento non è presente un istituto unico di confisca, ma se ne rilevano tipi diversi, ciascuno dei quali si distingue dagli altri per una peculiare natura giuridica ed una sua disciplina: alla luce di queste considerazioni, è opportuno precisare che la presente trattazione si concentrerà sulla specifica confisca espressamente richiamata dall’art. 162 ter c.p., cioè quella prevista dall’art. 240 comma 2° c.p.
Crisi di liquidità e omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto ex art. 10-ter D. Lgs. 74/2000: le molteplici declinazioni di un’esimente
Tribunale di Bergamo, 2 ottobre 2017 (ud. 17 luglio 2017), n. 1907
Dott.ssa Antonella Bertoja
Il contributo trae spunto da una recente pronuncia della giurisprudenza di merito per fotografare i più recenti approdi ermeneutici in relazione alla fattispecie delittuosa di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto di cui all’art. 10-ter D.lgs. n. 74/00, con particolare riguardo all’efficacia esimente della crisi di liquidità dell’impresa: circostanza fattuale, quest’ultima, dotata di molteplici manifestazioni empiriche e pertanto idonea a sorreggere esiti assolutori dalle diverse connotazioni giuridiche.
La sentenza della Corte costituzionale in tema di doppio binario sanzionatorio, alla luce della più recente giurisprudenza CEDU
Corte costituzionale, Sentenza 24 gennaio – 2 marzo 2018, n. 43
Presidente Redattore Lattanzi
Con la sentenza in epigrafe la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi sulla compatibilità a Costituzione del doppio binario rituale e sanzionatorio, amministrativo e penale, previsto dal nostro ordinamento per diverse ipotesi di illecito (sul tema, la Corte di era già pronunciata con la senteza n. 102/2016, commentata in questa Rivista, ivi).
In questa occasione, la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Monza con ordinanza del 30 giugno 2016, riguarda l’art. 649 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dei relativi Protocolli».
Dopo aver ricostruito i più recenti approdi delle Corti europee, la Consulta ha richiamato il principio ormai consolidato della “sufficiently close connection in substance and time“, valorizzato dalla pronuncia della Grande Camera CEDU A e B c/ Norvegia, che, ove sussistente tra i due procedimenti amministrativo e penale, rende il doppio binario conforme alla Convenzione EDU e segnatamente all’art. 4 Prot. 7.
Proprio “il mutamento del significato della normativa interposta, sopravvenuto all’ordinanza di rimessione per effetto di una pronuncia della grande camera della Corte di Strasburgo che esprime il diritto vivente europeo, comporta la restituzione degli atti al giudice a quo, ai fini di una nuova valutazione sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale(ordinanza n. 150 del 2012). Se, infatti, il giudice a quo ritenesse che il giudizio penale è legato temporalmente e materialmente al procedimento tributario al punto da non costituire un bis in idem convenzionale, non vi sarebbe necessità ai fini del giudizio principale di introdurre nell’ordinamento, incidendo sull’art. 649 cod. proc. pen., alcuna regola che imponga di non procedere nuovamente per il medesimo fatto“.
Da oggi in vigore le nuove norme sui giudizi di impugnazione: cosa cambia articolo per articolo
(6.03.2018)
Entra in vigore oggi, 6 marzo 2018, il D.Lgs. 6 febbraio 2018, n. 11 (Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere f), g), h), i), l) e m), della legge 23 giugno 2017, n. 103) che completa il lungo cammino della “Riforma Orlando”.
Per saperne di più
La Cassazione sulle esigenze cautelari che legittimano l’applicazione di misure cautelari personali
Cassazione Penale, Sez. V, sentenza (ud. 13 novembre 2017) 7 febbraio 2018, n. 5821
Presidente Vessichelli, Relatore Borrelli, P.G. Lori
La pronuncia che più sotto alleghiamo appare invero di notevole interesse sul piano processuale, perché lucidamente ricorda alcuni principi con riguardo alle tre esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., che consentono al giudice di disporre misure cautelari personali.
In un ricorso avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale del Riesame di Milano aveva confermato la misura custodiale in carcere, ritenendo sussistenti i pericoli di inquinamento probatorio, di fuga e di reiterazione del reato, la Cassazione ha, infatti, nettamente respinto tutte le argomentazioni a sostegno della conferma, e conseguentemente annullato l’ordinanza.
Di seguito, dunque, per ciascuna esigenza riportiamo le argomentazioni del Giudice del riesame e del Giudice di legittimità.
- Il pericolo di inquinamento probatorio. Art. 274 lett. a)
Il Tribunale. Nell’ordinanza del Tribunale del riesame si argomenta che il pericolo in discorso deriverebbe dalla natura dei reati per cui si procede (i.e. bancarotta per distrazione ed autoriciclaggio, ndr), caratterizzati da fonti prevalentemente documentali e, come tali, facilmente manipolabili; nel provvedimento vi è altresì il generico riferimento alla «già evidenziata temerarietà delle operazioni» che hanno visto protagonista l’indagato.
La Cassazione. Tali notazioni, decisamente prive di specificità, sono insufficienti a ritenere esistente l’esigenza di cautela probatoria che deve essere, a norma di codice, concreta, attuale e fondata su fatti specifici. Secondo una consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimità, poi, il pericolo di inquinamento probatorio va identificato in tutte quelle situazioni in cui l’indagato abbia dimostrato, con la propria condotta illecita o sulla base della personalità manifestata, di voler inquinare le prove e deve essere ancorato a comportamenti concreti dell’interessato di cui, nel caso di specie, non si dà atto nell’ordinanza. In altre parole, il Tribunale ha svolto un riferimento del tutto apodittico alla vulnerabilità della prova documentale, come tale non sufficiente a fondare un provvedimento restrittivo.
- Il pericolo di fuga. Art. 274 lett. b)
Il Tribunale. A supporto di tale esigenza cautelare, il Tribunale del Riesame ha utilizzato due argomentazioni: il radicamento familiare e professionale dell’indagato all’estero ed il quantum di pena, non esiguo, ritenuto pronosticabile, quest’ultimo tale da indurlo ad allontanarsi dal Paese.
La Cassazione. Quanto al primo aspetto, il provvedimento va censurato nella misura in cui attribuisce rilievo sintomatico ad una condizione soggettiva che, di per sé, non costituisce un dato concreto cui ancorare la valutazione di esistenza dell’esigenza cautelare di cui alla lett. b) dell’art. 274, comma 1, c.p.p.. A questo proposito, va ricordato come la giurisprudenza di questa Corte abbia ripetutamente interpretato la norma suddetta, in casi di collegamento o radicamento all’estero del soggetto sottoposto a misura, nel senso di non ritenere che quest’ultima evenienza sia sufficiente a sostanziare il pericolo di fuga perché priva di concretezza. Partendo dal presupposto che non sia necessaria la presenza di segni di un’attività già in atto, la Corte ha, infatti, chiarito che è pur sempre imprescindibile che vi siano elementi indicativi della volontà dell’indagato di sottrarsi alla giustizia, che non possono essere evinti da una sua particolare condizione soggettiva preesistente, senza condotte concrete cui ancorarsi. Sulla base di questa impostazione, si è escluso che il pericolo di fuga possa fondare sul fatto che un indagato prevalentemente viva ovvero abbia interessi commerciali e professionali in un Paese dell’Unione europea; in altri casi, la Corte ha evidenziato l’irrilevanza contra reo della disponibilità di alloggi e conti correnti, ovvero, ancora, la neutralità della mera residenza oltre confine, quando il trasferimento non sia finalizzato a sottrarsi alle conseguenze giudiziarie del proprio operato. In sintesi, il Tribunale milanese si è limitato ad evidenziare un profilo “statico”, senza indicare dati concreti circa la volontà dell’indagato di allontanarsi.
- Il pericolo di reiterazione del reato. Art. 274 lett. c)
Il Tribunale. L’ordinanza di conferma della misura ha valorizzato contra reo: (i.) lo svolgimento dell’attività di commercialista in ambito transfrontaliero, con la presumibile reiterazione di occasioni propizie per perpetrare con sistematicità ulteriori condotte criminose; (ii.) il tentativo di sottrarre al sequestro preventivo alcune partecipazioni societarie mediante la redazione di un falso contratto; (iii.) il trasferimento di ingenti somme dal conto corrente di società riconducibili all’imputato ad altri conti correnti; (iv.) l’ampiezza temporale in cui si è articolata la condotta, che svilirebbe la valenza pro reo del tempo trascorso dall’ultimo atto della vicenda.
La Cassazione. Sul punto va premesso che le modifiche dell’art. 274, comma 1, lett. c), c.p.p. dovute alla legge 16 aprile 2015, n. 47 hanno imposto che il pericolo che l’imputato commetta altri delitti sia non solo concreto, ma anche attuale, sicché non è più sufficiente ritenere altamente probabile che l’imputato torni a delinquere qualora se ne presenti l’occasione, ma è anche necessario prevedere, in termini di alta probabilità, che all’imputato si presenti effettivamente un’occasione per compiere ulteriori delitti della stessa specie.
Occorre perciò valutare se permane la situazione di fatto che ha reso possibile o, comunque, agevolato la commissione del delitto per il quale si procede. Solo quando il fatto non fornisca elementi idonei ad operare una valutazione sul rischio di recidiva, il giudizio sulla sussistenza dell’esigenza cautelare di cui all’art. 274, comma 1, lett. c), c.p.p. deve fondarsi su elementi concreti e non congetturali, quali la vicinanza ai fatti rivelatori delle potenzialità criminali dell’indagato ovvero la presenza di elementi indicativi dell’effettività di un concreto ed attuale pericolo di reiterazione.
Orbene, ancorché l’attività professionale svolta dall’indagato e la circostanza che egli operi all’estero, valutata in uno alle caratteristiche concrete del ruolo rivestito dal medesimo nella vicenda, possano fare ritenere altamente probabile che l’occasione di delinquere nuovamente si presenti, non sono stati evidenziati elementi sufficienti per ritenere che, presentatasi l’occasione, sia altrettanto altamente probabile la commissione di reati analoghi.
Quanto al fattore temporale, va osservato che la vicenda si è articolata in alcuni passaggi, l’ultimo dei quali risale al marzo del 2015, quindi ad oltre due anni dalla data del suo arresto in esecuzione dell’ordinanza genetica. Non può essere, di contro, condivisa la visione del Tribunale dell’appello cautelare tendente a ridimensionare il tempo trascorso in ragione dell’ampiezza dell’azione illecita, laddove, come nel caso di specie, tale ampiezza sia legata non già ad una reiterazione di condotte analoghe ma distinte tra loro, ma all’attuazione di un complessivo programma spoliativo, strutturalmente articolato in più passaggi.
Corte Costituzionale: con l’ “affidamento allargato” pena sospesa fino a 4 anni – sent. n. 41/2018
https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20180302125045.pdf
Reati fallimentari: nessun obbligo di consegna al curatore delle scritture contabili da parte dell’ex amministratore della società fallita. Necessaria la prova dell’intenzionalità del liquidatore di omettere la consegna della contabilità al curatore
Tribunale di Milano, Sez. I, 11 gennaio 2018
Presidente Fazio, Estensore Rizzi
Con la sentenza in commento, la prima sezione penale del Tribunale di Milano affronta due delicati temi in relazione alla tenuta delle scritture contabili della società fallita e all’obbligo di consegna delle stesse al curatore.
Si tratta in particolare: i) dell’insussistenza, in capo all’amministratore cessato in epoca precedente la declaratoria di insolvenza, dell’obbligo di consegna dei libri contabili al curatore; ii) della necessità di provare la volontà – in capo al liquidatore in carica all’atto del fallimento – di non consegnare la contabilità al curatore.
Il Tribunale di Milano, accogliendo le richieste delle difese, ha assolto tutti gli imputati dal reato di bancarotta fraudolenta documentale, in particolare – per l’amministratore delegato cessato – per non aver commesso il fatto, per il liquidatore in carica alla data della dichiarazione di fallimento perché il fatto non costituisce reato.
Con riguardo all’imputazione formulata a carico di tali imputati, l’accusa contestava la mancata consegna di tutta la contabilità sociale al curatore fallimentare ritenendo gravante tale obbligo sia sul liquidatore in carica al momento della dichiarazione di fallimento sia sull’amministratore da tempo cessato.
Più nello specifico uno degli amministratori, cessato dalla carica oltre un anno prima rispetto alla dichiarazione di fallimento, è risultato comunque imputato del reato di bancarotta fraudolenta documentale posto che, secondo la tesi dell’accusa, gravava anche su di esso l’obbligo di consegna delle scritture contabili al curatore nonostante la società fosse stata dichiarata fallita dal Tribunale di Milano oltre un anno dopo la cessazione del medesimo da ogni incarico.
Quanto, invece, alla posizione del liquidatore in carica al momento della declaratoria di insolvenza, l’accusa ne ha richiesto la condanna per non avere, anch’esso, provveduto alla consegna delle scritture contabili al curatore pur essendone obbligato.
Per la posizione dell’amministratore cessato prima della dichiarazione di fallimento i giudici meneghini, con la sentenza in commento, osservano che “…quanto al contestato delitto di bancarotta fraudolenta documentale, giova, innanzitutto, evidenziare che non è ravvisabile alcun obbligo di consegna al curatore delle scritture contabili in capo all’ex amministratore della società (cfr. Cass. 21818/2017).
Pertanto, la condotta penalmente rilevante può essere addebitata esclusivamente a colui che ricopre la carica di amministratore della società al momento della dichiarazione di fallimento della stessa, mentre per poter ritenere sussistente una responsabilità per bancarotta documentale di colui che ha formalmente rivestito la condotta di amministratore in una fase precedente, è necessario che sia contestato e provato che lo stesso fosse anche amministratore di fatto nell’ultima fase di vita della società o che abbia concorso, in qualità di extraneus, nel fatto dell’intraneus (amministratore della società al momento del fallimento) con la consapevolezza di determinare un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori (cfr. Cass. 21818/2017 cit.)
Secondo il Tribunale, confortato dal precedente giurisprudenziale della Suprema Corte richiamato, non può dunque invocarsi alcun obbligo di consegna delle scritture contabili a carico dell’amministratore cessato, fatto salvo che non si provi che il soggetto in questione, al di là della perdita formale della qualifica di amministratore di diritto, né abbia assunto, sino alla data del fallimento, quella di fatto piuttosto che concorso nel reato in qualità di extraneus.
Pertanto in capo all’amministratore di una società che sia “effettivamente” cessato da tale carica e che non abbia successivamente concorso nel reato come “extraneus” non grava alcun dovere di conservazione della documentazione contabile né un obbligo di consegna della stessa al curatore, in quanto la relativa posizione di garanzia incombe – in via esclusiva – sul soggetto che rivesta la carica di amministratore (piuttosto che di liquidatore) al momento della dichiarazione di fallimento.
Per quanto concerne la posizione del liquidatore, poi, il Tribunale, pur avendo accertato che il medesimo avesse ricevuto almeno parte della documentazione contabile della società, ha ritenuto del tutto insussistente il dolo specifico previsto dalla norma, in quanto assente la prova che il medesimo fosse animato dall’intenzione di nascondere la contabilità “al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto”.
E ciò per due motivi: innanzitutto perché non era emerso nel corso del dibattimento che il liquidatore avesse intrattenuto prima della sua nomina rapporti con la società fallita; secondariamente in quanto, nella fattispecie, il liquidatore era stato nominato quando ormai la liquidazione era pressoché completata, per cui era evidente che non potesse avere alcun interesse a non consegnare o ad occultare i documenti contabili.
Ne conseguiva un’assoluzione dell’amministratore cessato per non aver commesso il fatto e del liquidatore perché il fatto non costituisce reato.
La pronunzia in esame assume interesse con riguardo alla posizione del liquidatore essendo pacifico che all’amministratore “realmente” cessato prima della dichiarazione di fallimento (fatte salve le eccezioni formulate dal Tribunale di Milano con riferimento all’amministratore di fatto o al concorso dell’extraneus nel reato proprio) non competa alcun obbligo di consegna dei documenti al curatore gravando, in capo al medesimo, unicamente il passaggio di consegne a favore del nuovo amministratore o liquidatore.
Correttamente affermano i giudici milanesi che la garanzia di consegna delle scritture contabili si pone a tutela certamente della ricostruzione del patrimonio sociale e del movimento degli affari dell’impresa fallita ma affinché si possa ritenere consumato il più grave reato di bancarotta documentale è necessario che qualsiasi manipolazione delle stesse, finanche la mancata consegna o l’occultamento, abbiano come finalità quella di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori.
Il dolo specifico così tracciato dalla sentenza in commento – il cui onere probatorio grava sull’accusa – può ritenersi integrato unicamente qualora si pervenga alla dimostrazione che il liquidatore non si sia limitato ad operare nella fase terminale di chiusura della società ma che, in realtà, avendo interessi personali o di terzi da tutelare, si sia anzitempo ingerito nell’attività gestoria.
Tali circostanze costituiscono la presunzione che la finalità perseguita fosse proprio quella di avvantaggiare sé od altri piuttosto che arrecare pregiudizio ai creditori.
Ebbene, nel caso sottoposto al Tribunale di Milano con la sentenza in commento, è stato dimostrato che il liquidatore, pur avendo omesso in tutto la consegna della contabilità, prima della sua nomina non aveva intrattenuto alcun rapporto con la società fallita ed i suoi soci e amministratori.
Un’altra circostanza ritenuta fondamentale ai fini della dimostrazione dell’insussistenza dell’elemento psicologico del reato è da rinvenirsi nel momento in cui liquidatore era stato nominato ovvero quando di fatto la liquidazione era terminata.
Pertanto la mera posizione di legale rappresentante all’atto del fallimento della società non comporta sic et simplciter la penale responsabilità ex art. 216 comma 1 l. fall. ma occorre un quid pluris costituito dalla dimostrazione, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’agente abbia agito con l’intento di porre in essere una condotta lesiva degli interessi dei creditori o, a maggior ragione, atta a nascondere propri o altrui vantaggi.
Dunque non un ruolo di garanzia ma un abuso della propria posizione e dei propri doveri.
Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto Legislativo 6 febbraio 2018 n. 11 di modifica della disciplina in materia di impugnazioni
(2.03.2018)
Segnaliamo la pubblicazione, nella Gazzetta Ufficiale n. 41 del 19 febbraio 2018, del Decreto Legislativo 6 febbraio 2018 n. 11recante “Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere f), g), h), i), l) e m), della legge 23 giugno 2017, n. 103″.
Il provvedimento entrerà in vigore il 6 marzo 2018.
Inammissibilità del ricorso per cassazione e possibilità di dichiarare la depenalizzazione del reato o intervenire su statuizioni illegittime
Cassazione Penale, Sez. V, 22 febbraio 2018 (ud. 5 dicembre 2017), n. 8735
Presidente Fumo, Relatore Morelli
Nella pronuncia in esame si analizza la possibilità per la Corte di Cassazione di dichiarare la depenalizzazione del reatoo intervenire su statuizioni illegittime irrogate dal giudice di merito nel caso di inammissibilità del ricorso.
Sul punto – osservano i giudici – esistono due diversi orientamenti nella giurisprudenza di legittimità:
- secondo un primo orientamento, l’inammissibilità del ricorso per cassazione per qualunque causa verificatasi non impedisce la possibilità di dichiarare la depenalizzazione del reato nel frattempo intervenuta;
- secondo un altro orientamento, l’intervenuta rinuncia al ricorso è impeditiva rispetto alla accertamento che il fatto non è più previsto come reato.
La Corte ha aderito al primo indirizzo, «in ossequio al principio della ragionevole durata del processo, che impone di evitare una pronunzia di inammissibilità che avrebbe quale unico effetto un rinvio della soluzione alla fase esecutiva; anzi, a ben vedere – aggiunge la Corte – identiche ragioni impongono di considerare, oltre che l’accertamento della intervenuta abrogazione della norma penale, anche gli ulteriori effetti, in tema di risarcimento del danno e sanzioni civili, inevitabilmente connessi alla depenalizzazione».
In conclusione è stato affermato il seguente principio di diritto: «l’inammissibilità del ricorso per cassazione, per qualunque causa verificatasi, non impedisce la possibilità di dichiarare la depenalizzazione del reato nel frattempo intervenuta né di revocare le statuizioni civili e di annullare le sanzioni civili illegittimamente irrogate dal giudice di merito».
Depositate le motivazioni delle Sezioni Unite sulla Legge Gelli Bianco
Depositate le motivazioni delle Sezioni Unite sulla Legge Gelli Bianco
Concorso formale di reati per chi, con una sola azione, usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali (26 febbraio 2018)